Il genocidio degli ebrei
di Franco Tarsi
Mercoledì 27 gennaio il mondo ricorderà il genocidio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Nell'impossibilità, quest'anno, di partecipare a manifestazioni, cineforum e dibattiti, non ci è comunque impedito di leggere, riflettere e pensare
Vuoi leggere l'articolo completo?
A) Accedi con il tuo account
Sarà la sedicesima volta che l’attenzione, il cordoglio e la vergogna si concentreranno ufficialmente su uno sterminio (Shoah) di cui la guerra non è stata la causa, bensì, più precisamente, un’occasione opportunamente preceduta da un’atmosfera e da un ambiente persecutori, scanditi da intemperanze e violenze che si connotavano come la preparazione della tempesta; una tempesta che avrebbe investito senza riparo sei milioni di persone, colpevoli unicamente della loro appartenenza alla religione ebraica, spesso neanche professata.
La data del 27 gennaio, istituita come ‘Giornata della Memoria’ il 1° novembre 2005 per effetto di una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, non è casuale: è la data in cui l’Armata Rossa dell’Unione Sovietica entrava nel campo di sterminio di Auschwitz (Oswiecim in polacco) in Polonia, liberando (il numero è incerto) circa 7 mila sopravvissuti.
Ad Auschwitz, è stato calcolato, sono morti, dall’apertura del campo (ufficialmente konzentrationslager, cioè campo di concentramento, nonché di lavoro), operativo dal 14 giugno 1940, fino alla liberazione, tenendo conto anche dei campi collegati di Birkenau (Brzezinka) e Monowitz, 960 mila ebrei (secondo altri 1,1 milioni), oltre a 150 mila polacchi, 23 mila zingari e 15 mila prigionieri di guerra sovietici.
I sopravvissuti ritrovati erano relativamente ‘pochi’ solo perché, con l’accentuarsi della pressione militare da oriente e con l’avvicinarsi delle truppe sovietiche, i nazisti avevano avviato un programma di alleggerimento degli ‘ospiti’ dei campi più vicini al fronte, nel tentativo di nascondere al mondo le prove dello sterminio organizzato.
I trasferimenti erano noti come ‘marce della morte’ (todesmaersche) perché i prigionieri dovevano spostarsi a piedi, a volte per decine di chilometri (prima di essere caricati su carri bestiame per accelerare i trasferimenti) e in proibitive condizioni climatiche, e morivano a frotte durante il viaggio.
Ad una di queste marce prese forzatamente parte anche una persona ben nota in Italia, Liliana Segre, nominata senatrice a vita il 19 gennaio 2018 dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Liliana Segre, nata a Milano il 10 settembre 1930, proprio da Milano, dal famigerato binario 21, sotterraneo e nascosto al pubblico (ora Memoriale della Shoah), era partita (o, meglio, caricata, come un pacco postale) per il campo di Auschwitz, raggiunto dopo una settimana di viaggio, il 30 gennaio 1944; aveva 13 anni.
La sua ‘marcia della morte’, verso il ‘sottocampo’ di Ravensbruck, ad un centinaio di chilometri a nord di Berlino era iniziata un anno dopo, il 18 gennaio 1945, una decina di giorni prima dell’ingresso ad Auschwitz delle truppe sovietiche. La distanza è calcolabile in settecento chilometri complessivi, ma la Segre ne percorse solo una parte, perché fu liberata durante il viaggio.
Nella ‘giornata della memoria’ ricorderà quindi i suoi primi settantasei anni da persona libera. Libera fisicamente, non dai ricordi e dai segni profondi dell’orrore.
Il genocidio degli ebrei è una della tante vergogne che hanno macchiato il mondo, probabilmente la più vasta e profonda. La colpa viene attribuita al regime nazista; l’attribuzione è sbrigativa, ma non così limpida e risolutiva come dovrebbe. Prima di tutto perché le ‘marce della morte’ in sé rappresentano una manifestamente colpevole frenesia di occultamento anche se, nella legislazione internazionale dell’epoca (più precisamente al tempo del Processo di Norimberga), non esisteva il reato di ‘crimini contro l’Umanità’.
Secondariamente andrebbero messe in grande evidenza l’ampiezza e la diffusione geografica della ‘soluzione finale’. In una carta allegata al tomo dedicato al secolo ventesimo nell’opera storica Propylaen-Weltgeschichte (in italiano: “I Propilei”, editore Mondadori) a cura di Golo Mann, figlio dello scrittore premio Nobel per la letteratura (1929) Thomas Mann, si può avere un panorama dei campi di concentramento nazisti del Terzo Reich, fra campi principali, campi esterni e distaccamenti autonomi, carceri della Gestapo.
E’ una vista sintetica sconvolgente, che copre capillarmente la Germania, l’Austria, oltre a parte della Polonia e dell’odierna Repubblica Ceca. Da qui nasce una terza considerazione del fenomeno. Data la capillarità dei campi è possibile - ci si può chiedere - che i tedeschi comuni non sapessero a che cosa servissero né che cosa succedesse al loro interno?
Inoltre è possibile che nessuno notasse la sparizione dei vicini di casa, la scomparsa dei colleghi di lavoro e dei compagni di scuola, la chiusura di negozi e aziende di proprietà di ebrei? Erano centinaia di migliaia di persone che sparivano improvvisamente e in massima parte nessuno rivedeva più.
Non sono domande nuove, ma per penetrare meglio nell’incubo è inevitabile che ad ogni commemorazione della Shoah, segnatamente nella ‘Giornata della Memoria’, perplessità e dubbi riaffiorino e creino malessere.
Se ne è fatto interprete, venticinque anni or sono (1996), Daniel Goldhagen, allora un giovane professore di Harvard (Boston, 1959), pubblicando un libro intitolato ‘I volonterosi carnefici di Hitler’ (per l’Italia: Mondadori 1997), nel quale l’autore osserva che il brodo di coltura del quale si era nutrito il nazismo era l’antisemitismo diffuso da secoli, in particolare nei paesi dell’Europa centrale (e non solo), ed arriva ad attribuire le colpe dell’accaduto ai tedeschi di ogni estrazione sociale, che avevano dato volontariamente una mano (da qui il titolo del libro) alle SS e al partito nazista. Basta scorrere i titoli delle parti in cui l’opera è divisa per capirne il significato intrinseco.
Due esempi. Parte terza: I battaglioni di polizia: tedeschi comuni, volonterosi assassini (e, all’interno, I battaglioni di polizia: agenti del genocidio). Parte sesta: L’antisemitismo eliminazionista: tedeschi comuni, volonterosi carnefici.
Non approfondiamo qui, ma il libro è da leggere tutto: è una visione storica, ha dignità storica. Parlando due anni or sono agli studenti di Milano, Liliana Segre aveva espresso il timore che la Shoah, con la morte dell’ultimo ebreo scampato allo sterminio, “fra negazionismi ed oblii venga ridotta prima ad un capitolo di storia, poi ad una riga e poi non ci sarà più”.
Sapendo chi è la senatrice Segre e che cosa ha subito, questo pessimismo, amarissimo perché senza speranza, è pienamente comprensibile, prima di tutto perché nel settembre 2020 anche lei, sopravvissuta, è passata nel club dei novantenni; ed in secondo luogo perché i rigurgiti della pandemia antisemita ogni tanto ricompaiono e lo stato di Israele, dove vive poco meno della metà degli ebrei nel mondo (6,6 milioni su 14,7 milioni nel 2018), è costantemente minacciato di annientamento, per lo meno a parole e intenzioni, dalla Repubblica islamica dell’Iran.
Ma stia tranquilla, signora Segre. L'istituzione di una ‘Giornata della Memoria, serve proprio a incatenare il mondo (meno l’Iran, appunto, e qualche satellite politico e religioso) ad un impegno: resistere e difendere Paesi, popoli ed etnie, e ricordare che cosa non deve più succedere. Quest’anno ci si è messa contro la pandemia del Covid, impedendo per legge, e per prudenza, gli assembramenti e quindi la possibilità di vedere film, rappresentazioni, mostre e partecipare a dibattiti sulla Shoah. Ma ciò non ci impedisce di leggere e di pensare. Ed è proprio quello che occorre. E che conta.
Franco Tarsi, consigliere alla cultura di Paitone