31 Ottobre 2021, 06.21
Pertica Alta Valsabbia
Lettere

«Avevano, anche i belpratesi, ingrossato le fila di quei battaglioni»

di Giuseppe Biati

Giuseppe Biati, presidente del “Centro Studi della Brigata Giacomo Perlasca delle Fiamme Verdi e la Resistenza Bresciana”, ci invia una riflessione sui tragici fatti che hanno fatto seguito all'8 settembre 1943. Pubblichiamo volentieri


Belprato è un “paesello aprico e solatìo che si stende sul dorso di una grande prateria…
La parte più alta  si denomina ancora coi nomi medioevali di Castello, Rocca e Borgo; nella parte inferiore, sotto la strada, Ere (aie), Orti e Dosso……si ha un’ampia visuale su tutta la Val Sabbia”.(1) 
Dalla fortunata balconata si rincorre  la successione di due, tre, quattro, cinque quinte di spalti montani, e lo spettacolo ha in sé il filo di un incantesimo, che, quotidiano miracolo, si  ripeterà il giorno dopo!

Di rilevante a Belprato
non c’è che la chiesa parrocchiale, a protezione di  quell’inconfondibile insieme abitativo, la cui centrale piazzetta, fatta a scalea e  lastricata di sassi, faceva dire, a Giannetto Valzelli, essere l’ineguagliabile luogo “per una recita di pudico amore e di meste rimembranze”.

Al centro è stato eretto il monumento ai caduti delle ultime due guerre. Di quelle coloniali non v’è traccia, anche se le guerre moderne iniziavano lì, fra gli eccidi e i gas nervini sperimentati sugli inermi, donne e bambini compresi, dalle manie di grandezza  e di dominio di una classe politica ingorda e spregiudicata.

Fino a quel momento, Belprato costituiva un mondo contadino di semplicità connaturato alla frugalità, di sani ed inderogabili principi etico-religiosi, non tanto perché impressi dalle evangeliche esortazioni delle prediche domenicali, ma insito in una quotidianità che aveva il carattere, sublime, dell’onesta partecipazione alla implacabile (questa sì) ruota della vita.
A sconquassare questi ritmi rurali ci furono soprattutto le guerre, di indipendenza, la prima guerra mondiale, le guerre coloniali, la seconda mondiale.

Si appoggiavano sulle scelte di pochi
con l’assordante rumore dei loro proclami e sulle deferenze di molti, obbligati dalle propugnate e mentite spoglie per la difesa di una patria alla quale loro, i contadini di montagna, appartenevano solo numericamente, senza rappresentanza, senza diritti se non quello, tramutatosi in pesante dovere, del sacrificio della loro vita e della loro esistenza: “carne da cannone” di insensate e sanguinose controversie o meglio di “inutili stragi”, per usare  le parole di Benedetto XV relative al primo evento bellico mondiale.

Con la seconda guerra mondiale, dopo un ventennio di regime fascista e di dittatura liberticida, dove contava solo il potere non disgiunto dalla violenza, questo mondo contadino contribuì, costretto, ad ingrossare le fila di un esercito di cartone, reso forte e possente solo dalle azioni propagandistiche nazionalistiche, che affrontò le diverse campagne belliche intraprese con l’inavvedutezza dell’impreparazione e la sconsiderata sete di conquista dei suoi capi.

Avevano, anche i belpratesi, ingrossato le fila di quei battaglioni
con l’obbligo imposto dalla leva, strappati alle famiglie e ai campi, agli amori intimi e alle bestie da accudire, ai profumi primaverili del maggengo e alle odorose cantine dove stagionava il formaggio.
“La Patria chiamava” era la profana e bugiarda litania che i gerarchi diffondevano per guerre senza la comprensibile cognizione delle loro motivazioni. Qualche giovanissimo ne subì il perpetrato inganno!
Alcuni, i reduci, tornarono; per altri non restò ai posteri che incidere nel bianco marmo i loro nomi, la data e il luogo di morte, a perenne memoria e a duro monito.

Tutti i morti, volontari ingannati ed obbligati riluttanti,
però ed a ben meditarci, avevano o avrebbero avuto più di una ragione per vivere.
Spagna prima, poi Albania, Grecia, Africa, Russia furono solo alcune delle tragiche tappe di avventati percorsi di tragedia e di morte, nel ‘sudicio fossato della storia’.

I fatti dell'8 settembre del 1943, con l'armistizio, fecero dell'Italia un Paese allo sbando: con l'illusione della pace, gli italiani si avviavano a un lungo periodo di stenti, di bombardamenti, di rappresaglie e di guerra civile.
La data dell'annuncio dell'armistizio con gli Alleati e della fine dell'alleanza militare con la Germania fu anche la data della dissoluzione dell'esercito italiano, dei primi episodi di Resistenza contro i tedeschi e di guerra civile .

Con la Resistenza, crebbe anche la capacità critica del popolo
, quello più dimesso, quello della obbedienza cieca.
I figli del popolo iniziavano ad optare per la renitenza, per la diserzione, per la riluttanza, per il rifiuto.
Anche nelle grandi case contadine, dove i figli abbondavano, come le noci, perché sono benedizione di Dio, le defezioni al fascismo e alle sue manifestazioni erano numerose.

La macchia, il bosco, la montagna accoglievano i diversi pensieri dei giovani figli delle classi più deboli.
Avevano l’innata ritrosia del manifestarsi, timidi e ingarbugliati, ma ferrei nelle decisioni e dipendenti dal labbro di chi dell’intellettualità esercitata sui banchi della scuola alternativa o degli oratori ispirati si ergeva a guida.
Fulgidi erano gli ideali, tali da rapire mente, cuore e corpo intero.

Quella scalinata belpratese, di pudico incanto, aveva assistito alla tumulazione di Emiliano Rinaldini e di Fabio Pelizzari, partigiani trucidati dai repubblichini, italiani come loro, l’uno in località S. Bernardo di Belprato, l’altro sulle ombrose entrature di Odeno, sempre di Pertica Alta.
Di Emiliano Rinaldini rimane l’esempio fulgido.

Chiamato alle armi nella Repubblica Sociale di Salò, aveva scelto i monti, la latitanza come primo approccio e, man mano, il gruppo dei giovani renitenti aumentava cresceva anche la partecipazione al dibattitto politico, al sogno di un avvenire lontano dalle violenze morali e fisiche di un fascismo rivelatosi in tutta la sua scellerata empietà.

Si doveva lottare per un’Italia libera e giusta.  

Era sui monti.
La montagna è il luogo dei silenzi primordiali e delle bufere di vento e di neve, delle assolate calure estive, del dilemma e del mito, della roboante dettatura del Decalogo e della serena scansione delle Beatitudini; è il regno della solitudine metafisica che può generare paura, come se fosse la prima pulsione del coraggio.

Era anche il significativo luogo  della scelta, della resistenza, del ripudio agli orrori di una società non più riconducibile all’interpretazione fedele e cultuale dell’umanità.

Quando alcune donne ritrovarono sui monti il corpo insanguinato del diciottenne Fabio Pelizzari, ucciso dai nazifascisti in uno dei frequenti rastrellamenti, il sacerdote Salice maturò la sua scelta! Mai più neutralità di azione, ma convinta scelta di libertà per una Patria diversa da quella che il fascismo prefigurava.

Belprato, 30 0ttobre 2021 - “Deposizione  di una corona d’alloro al monumento dei caduti”.

Faccio personalmente fatica a credere che, in una giornata finale di un ottobre che nella Pertica rifulge dei variegati e smaglianti colori autunnali, si possa scegliere di commemorare un caduto diciottenne, “una giovane vita spezzata per amor di patria” a Tarnova della Selva (2) il 19 gennaio 1945: un diciottenne che, l’anno prima, aveva volontariamente aderito alla Repubblica Sociale Italiana.

La morte è sempre triste,
sempre un insondabile mistero, sempre un insopprimibile dolore per tutti; e tutti i morti,  equiparati, entrano in questa impenetrabile ed eterna disciplina dell’arcano.
Ma, attenzione, se uguali nella morte, non sono equiparabili nelle motivazioni per cui, da vivi, hanno effettuato le loro scelte!
Immediate prorompono, schegge proiettate nel buio della profonda notte degli animi, alcune considerazioni/riflessioni.

Una prima.

Quando di mezzo ci sono i valori fondamentali della nostra Repubblica, fra cui una Costituzione basata sull’antifascismo, bisogna non stare silenziosi, soprattutto laddove vengono lanciati revisionismi storici su dirompenti fatti d’arme relativi al fascismo!

C’è una realtà incontrovertibile: in Italia ci fu chi sacrificò la propria vita per regalare a tutti noi la libertà, anche a chi la usa male. Era nel conto.
E, poi, ci fu chi sacrificò la propria vita – e qui sta l’inganno e il plagio – per aiutare un dittatore che trascinò l’intera Nazione in una guerra folle e che approvò la vergogna delle leggi razziali.
Stiamo parlando di una guerra che ha avuto sicuramente aspetti tragicamente fratricidi.

Credo che sia molto difficile, quando si hanno avuto familiari caduti "dalla parte sbagliata" o si è stati vittime di soprusi o di vendette da parte dei nuovi vincitori, costruire su questi fatti una memoria condivisa.

Pietro Scoppola, nell'infuriare della polemica storico-politica sul revisionismo, invitava a fare un passo avanti e a considerare la Costituzione italiana, nata dalla Resistenza, come il momento fondante di una storia e di una memoria condivisa.
Il tema della riconciliazione, però, va affrontato tenendo conto che la pietà per i morti dell'una e dell'altra parte non significa che le ragioni per cui sono morti siano equivalenti.
"Tutti uguali davanti alla morte - scriveva Calvino - non davanti alla storia".

Non c'è dubbio che la pietà e il rispetto siano sentimenti condivisibili di fronte a giovani caduti nelle file di Salò che probabilmente combattevano in buona fede. Questo non ci consente, però, di equiparare i due campi: da una parte si combatteva per la libertà, dall'altra per la sopraffazione.
Discendeva da questa patria della sopraffazione l’”amor di patria”?
Nella domanda che il filosofo Bobbio poneva ai revisionisti già vi era una implicita risposta: “Che cosa sarebbe successo se, invece degli alleati e dei partigiani, avessero vinto i nazisti?"

Sacrosante risultano anche essere le parole di Italo Calvino:
Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buona fede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, che di queste non ce ne sono”.

Una seconda riflessione.

Viviamo oggi in tempi che possiamo considerare difficili e ricolmi di sconsiderata antipolitica, di intolleranza, di odio razziale, di disprezzo delle vite umane, di degrado ambientale con processi degenerativi troppo spesso tollerati e non puniti, di rievocazione di regimi totalitari!
E, a proposito di questi ultimi, ricordiamoci che l’apologia del fascismo non è una libera espressione o una semplice opinione: è reato!

Non vogliamo sangue – scriveva Lionello Levi, in Viaggio nell’Italia liberata (3) - e nemmeno confino e prigioni di fascista memoria. Ma vogliamo che dalla scena politica italiana, dai gangli vitali della vita nazionale spariscano una volta per sempre tutti coloro che sono stati la causa prima delle sventure della patria”.
Ma perché non ammettere che il passato, questo tragico passato facciamo tanta fatica a riconoscerlo?

La Germania ha fatto dei suoi “giorni della memoria” il tempo della responsabilità e del pentimento. Da noi, la parola “memoria” sembra contenere i termini dell’autoassoluzione.
Ma, “…anche noi abbiamo la nostra colpa – parole del partigiano Zenit -  e bisogna saperla espiare e bisogna rimediare. Perché abbiamo applaudito a cuor leggero, quando si sostituiva all’amore della patria un’idolatria per un uomo, alla libertà politica la mistica della parte, quando allo spirito di avventura si dava la veste di giustizia, quando all’impresa predace si dava il titolo di missione civilizzatrice”.(4)

Lo squadrismo di Casa Pound, di Ordine Nuovo, di Forza Nuova con gli ultimi vergognosi e ripetuti assalti alle sedi sindacali maggiormente rappresentative, delle organizzazioni dell’anarchismo estremista e insurrezionalista, i vessilli “repubblichini” issati a sfida sulle alture e ostentatamente portati nelle piazze, le dichiarazioni anti-Costituzione di alcuni politici (troppi!) inquietano non poco  e vanno ad avvalorare un dubbio feroce che mi e ci attanaglia!

Ed è questo:             
“…i fascisti son tornati in scena, a gran richiesta degli Italiani immemori”; di quel fascismo da non intendersi tanto come connotazione esclusivamente riferibile a quello specifico periodo storico, ma come “dottrina che non è solo traviamento del pensiero, ma dissacrazione e disgregazione dell’humanitas, dei sentimenti fondamentali e sacri…”, come scriveva Alberto ne “I QUADERNI DE “il ribelle”.(5)

L’immemoria è, quindi, la gramigna da estirpare, sostituendola con lo studio della storia, attraverso documenti e memorie, “sine ira ac studio”!
Perché non si possa scrivere e dire come in quelle ultime lettere dei soldati tedeschi  nella tragica sacca di Stalingrado:
“Dieci anni fa si trattava ancora della scheda elettorale, oggi ci costa una cosa da nulla: la vita”.
Signor consigliere, Stalingrado è una buona scuola per il popolo tedesco, peccato solo che coloro cui viene impartita oggi questa istruzione, difficilmente la potranno valorizzare più tardi. Si dovrebbe poterne fissare il risultato…”.(6)

Una terza riflessione.
Nel constatare la permanenza ancora oggi, dopo 76 anni, di campi di sterile contrapposizione e di sfide divisive, mi sembra importante richiamare le due più significative esperienze di emancipazione politica della storia italiana: il Risorgimento e la Resistenza antifascista, che tali sono state nonostante i loro limiti e i loro vizi, sostenute dall’idea – tipicamente mazziniana - che patria significa libertà comune di un popolo che vuole vivere libero tra popoli liberi.

Patriottismo, quindi, diverso da nazionalismo e da non confondere; l’uno che esalta la libertà, l’altro che esalta l’omogeneità culturale o etnica; l’uno che insegna il rispetto della persona, l’altro che giustifica il disprezzo per chi non appartiene alla nostra nazione.

All’uomo di cultura (e tutti lo dobbiamo essere) – come ricordava Norberto Bobbio (anno 1961) - “non spetta altro compito che quello di capire, di aiutare a capire. E se, nell’esercizio del suo compito favorisce lo spirito di compromesso, anziché quello della rissa, sarà tanto di guadagnato per la causa della pace, purchè, s’intende, sia ben chiaro che dall’intelligenza del problema lo spirito di compromesso non deriva come necessaria conseguenza, perché può derivare con egual diritto la conseguenza contraria, cioè l’esclusione di ogni possibilità di compromesso.
L’importante è che l’uomo di cultura, quando è impegnato nella sua funzione che è quella di capire, non si lasci frastornare dagli zelatori di ogni ortodossia o dai pervertiti di ogni propaganda,
(…)

Non vi è per l’intellettuale che una forma di tradimento o di diserzione: l’accettazione degli argomenti dei ‘politici’ senza discuterli, la complicità con la propaganda, l’uso disonesto di un linguaggio volutamente ambiguo, l’abdicazione della propria intelligenza alla opinione settaria, in una parola il rifiuto di ‘comprendere’, e in tal guisa di apportare agli uomini l’aiuto prezioso di cui la cultura sola è capace, l’aiuto a infrangere i miti, a spezzare il circolo chiuso di impotenza e di paura, in cui si rivela la contagiosa inferiorità dell’ignoranza”.

Sono queste le tappe di un percorso, dove diventare “ribelli”, infrangendo miti e spezzando paure, costruendo coesioni sociali e intrecciando segmenti culturali, significa rivendicare la moralità di una scelta!
                        
Giuseppe Biati,
Presidente del “Centro Studi della Brigata Giacomo Perlasca delle Fiamme Verdi e la Resistenza Bresciana”.

Belprato, 30 ottobre 2021

note:
1-Cfr.: P. Guerrini, in Memorie storiche della Diocesi di Brescia,  del 1956.
2-La difesa di Tarnova della Selva (ora borgo della Slovenia), dove operava il Battaglione “Fulmine” della X Flottiglia MAS, composto da personale dell’ex Regio Esercito e di giovanissimi volontari, è stata definita dal generale Farotti “una trappola per coloro che avrebbero dovuto presidiarla, anziché una efficace posizione di resistenza”.
Lo scontro ha assunto, nella memorialistica neofascista, il ruolo di una battaglia a protezione della città di Gorizia. Cosa smentita dalle fonti storiche. “A presidiare Tarnova – sempre secondo la testimonianza del generale Farotti – restò il più debole dei nostri reparti, il Battaglione “Fulmine”, con gli organici ridotti ad un paio di striminzite compagnie di fucilieri, con pochissime armi automatiche di reparto e senza mortai da 81. Non so da chi sia stato commesso questo grave errore di valutazione, certo è che fu pagato poi duramente, proprio dall’incolpevole “Fulmine”.
3-Dalla relazione di L. Levi, Viaggio nell’Italia liberata, (1945).
4-Zenit, PAROLE AGLI ARMATI DEL POPOLO, I QUADERNI DE “il ribelle” – n. 7.
5-Alberto, ne “I QUADERNI DE ”il ribelle”, n. 3
6-Ultime lettere da Stalingrado, (Letzte Briefe aus Stalingrad), Lett. IV, Einaudi, Torino 1969, p. 12.




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