03 Giugno 2007, 00.00
Pertica Alta
Martire?

La storia del Beato Simonino di Trento

di Sergio Re

Della storia del Beato Simonino ce n’eravamo giŕ occupati. Poi, chissŕ perché, ritorna.
Stimolato dal racconto di Clementina Coppini pubblicato nei giorni scorsi che ne ha solo accennato, Sergio Re puntualizza e approfondisce.

Della storia del Beato Simonino ce n’eravamo già occupati e poi, chissà perché, ritorna. Stimolato dal racconto di Clementina Coppini pubblicato nei giorni scorsi che ne ha solo accennato, Sergio Re puntualizza e approfondisce.

Giorni fa queste pagine hanno ospitato il contributo – simpatico – di una attenta visitatrice della Valle Sabbia alla quale non è sfuggita l’icona (non troppo diffusa in verità in questa valle) di un bimbetto che rimanda ad una triste avventura vissuta dal piccolo Simone Unferdorben. Vittima nel vicino trentino di una morte crudele avvenuta in circostanze misteriose sul finire del sec. XV, la sua rapida “canonizzazione” ha seguito un iter invero insolito e poco consueto che vale la pena di raccontare.

Era la sera del 23 marzo 1475, giovedì santo, il piccolo Simone stava giocando e, nella spensieratezza e nella incoscienza dei suoi 29 mesi, era probabilmente sfuggito allo sguardo attento della mamma. Quando nella famiglia di Andrea – il papà – ci si accorse della sua assenza, immediatamente incominciò la frenetica ricerca alla quale dette man forte, come al solito nello spirito solidaristico della montagna, tutto il paese. Ma di Simonino non vi era traccia né nei pressi della casa, né negli immediati dintorni.
Il corpicino straziato venne alfine rinvenuto due giorni dopo, nella ricorrenza di Pasqua, orrendamente vulnerato, massacrato e sfigurato in una roggia poco fuori dall’abitato. Nessuno pensò ad un increscioso incidente, nessuno cioè pensò che il bambino potesse essere scivolato nella roggia e, dopo essere stato sbatacchiato dalle acque qua e là, fosse stato restituito dal fiumiciattolo poco fuori dell’abitato.

Il fatto è che vi era sicuramente qualcuno che soffiava sul fuoco. La roggia infatti riprendeva la sua strada tra i monti proprio dopo aver attraversato il quartiere ebraico che si trovava alla periferia della città e all’epoca la propaganda antiebraica era rinfocolata non solo da odi religiosi, ma anche dalla intensa attività bancaria che – preclusa (almeno formalmente) ai cristiani – veniva efficacemente svolta dagli ebrei. A contrastare i lucrosi guadagni dei prestatori ebraici in prima linea si schieravano i Francescani e proprio all’epoca, sull’onda della predicazione di Bernardino da Feltre, che aveva da poco attraversato il bresciano, stavano sollecitando con vera passione la creazione dei Monti di Pietà.

Giusto o sbagliato che fosse una trentina di ebrei vennero catturati e “processati”. Il fatto e la vicinanza alla Pasqua diedero subito vita ad una accusa macabra. Infanticidio a scopo rituale. Gli ebrei in breve avrebbero torturato e ucciso il piccolo per cibarsi del suo sangue nei loro riti pasquali. Alcuni di loro sotto la pressione delle torture confessarono un delitto che – come si è detto – probabilmente non era mai stato commesso. A nulla valse l’immediato intervento del papa Sisto IV che aveva inviato sul posto un suo commissario con il compito di annullare prima il processo e poi la condanna.
Dei trenta disgraziati, quindici vennero inviati al rogo sulla scorta delle paure che intersecavano la grande stagione delle streghe. Il Vescovo di Ventimiglia, Giovanni Battista dei Giudici, che al tempo era l’incaricato pontificio, si allontanò da Trento scuotendo la testa e subito da Roma partirono bolle per proibire l’iniziazione di un culto nei confronti del bambino. Non era stato martirizzato e non v’era ragione di santificarlo, ma ciò non impedì alla gente di costruirsi alternativamente questo ora Beato e ora Santo, sull’onda delle paure che attraversavano la società dell’epoca nei confronti dei diversi.

Questi in estrema sintesi i fatti. Da allora la gente poco ascoltò le raccomandazioni del papa e anche le proibizioni inviate da Venezia con apposita ducale. Tutti volevano il santo e Simonino agli occhi di tutti divenne il santo martire che, preservando la popolazione dai pericoli del diverso, sanciva contemporaneamente l’illiceità degli ebrei a reputarsi esseri civili.
Da Trento il culto si diffuse con rapidità e non fa meraviglia che abbia sostato anche in quel di Barbaine. In Val Camonica addirittura si fece travolgente e raffigurazioni del “Beato” Simonino si trovano in grande copia, a Bienno (nella Chiesa di Santa Maria ve ne sono addirittura quattro), ma l’immagine s’insegue poi a Niardo, a Cerveno, a Malegno, a Esine e a Breno; una diffusione che evidentemente andava di pari passo con l’intenzione di scalzare i lucrosi guadagni dei banchi ebraici – accumulati sulla pelle della povera gente – per sostituirli con il Monte di Pietà, vera banca solidale con i poveri.

In conclusione sarebbe interessante verificare se anche qui in Valle Sabbia il culto del Beato Simonino può essersi sviluppato in prevalenza a ridosso di colonie ebraiche, dove i Francescani con maggiore irruenza hanno cercato di rilanciare l’idea del prestito a tasso agevolato per i più indigenti.


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