Il terzo occhio

 

Nel giro di pochi giorni mi capita di vedere un paio di film con la stessa protagonista, un’attrice che mi pare abbastanza defilata dal chiasso pubblicitario che studio avidamente nella sua arte per la drammaticità che riesce ad esprimere.

In uno di questi film impersona una donna che perde in un incidente aereo il marito, il copione le dice di non versare una lacrima ed io rimango stupita a scavare sul suo volto un tradimento al dolore che si bagna di lacrime, un cedimento al lutto secondo le tappe che percorrono la nostra più fonda umanità.

Nel film questo non deve essere descritto e la credibilità è giocata sulla sua espressività mimetica che nel volto è sottolineata da profondi occhi incavati e da una mobilità delle sopracciglia che rimangono aperte all’ondata dolorosa degli eventi.
Gli attori sanno le corde che azionano lo sgorgare dei sentimenti, mi sento rassicurata di essere di fronte a una professionista ma anche una donna che riconosce ed esprime.

Ciò mi commuove e mi permette di entrare nella recitazione per capire: trovo allora il perché non fosse necessario il pianto, nell’allargare le sopracciglia e guardare l’obiettivo lo stupore lascia tempo silenzioso perché lo strazio si disegni nel corpo, invece di rifiutare le ondate di dolore il viso si apre completamente ad accettare.

Mi viene in soccorso quel terzo occhio, quel punto tra le sopracciglia che nella cultura indiana è disegnato, quel tenero punto che trapassa la fine della nostra umanità e si incontra con il progetto spirituale universale.
Tenere aperti i nostri canali per essere a contatto con i nostri sentimenti ha significato se l’esercizio non è la scena di un film, semplicemente che la vita diventa artistica se si sa dove si va a parare.

 

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