La luce s’infilava gentile attraverso le persiane, colpendole il viso. Con fatica ritornò al presente. Con fatica prese coscienza del suo corpo steso su di un materasso morbido, nudo e caldo tra lenzuola ruvide...
... Con fatica capì di essere girata su di un fianco, le braccia pesanti e inermi, ogni muscolo di cemento e la testa ronzante. Con fatica aprì gli occhi e tutto quello che vide fu blu.
Ci mise qualche secondo, qualche secondo in più a capire che era una parete. Una parete blu. Che lei non riconosceva. Troppo stanca per muoversi, troppo presto. Fissò quella parete sperando di ricordare. Cercando una risposta al “dove sono”. Il ronzio nella sua testa diventò assordante. Chiuse gli occhi strizzandoli. Li riaprì sempre su quella parete blu. Che non le ricordava nulla. Uno schermo blu senza immagini. Senza ricordi della notte precedente. Senza appigli a cui aggrapparsi. Freeclimber maldestra e incosciente. Freeclimber pericolosa.
Si voltò pesante, dolorante. Supina. Sul soffitto una scritta: “Sei a casa”. Fissò quelle parole senza metterle a fuoco. Quella non era casa sua. Nessuna parete blu in casa sua. Nessuna. E si accorse che qualcuno accanto a lei respirava. Un respiro profondo e leggero. Non voltò subito il viso, non era sicura di voler riconoscere il corpo che le stava accanto. Non era sicura di poterlo riconoscere. Poi lo guardò. E sorrise. Carino. Le era andata bene. Stavolta. Carino.
Chiuse gli occhi senza smettere di sorridere. Qualsiasi cosa fosse successa durante la notte non doveva essere stata così male. E un po’ le scocciava non ricordare. C’era un’immagine confusa di lei nel bagno dell’Alkaline, addosso alle piastrelle fredde e qualcuno che la baciava. Non era sicura fosse riferita alla notte precedente. Non era sicura fosse successo davvero. Poi un’altra immagine: lei che baciava qualcuno sul cofano di una Audi. Quella era lei, lui non sa. Forse il tipo che le respirava accanto. Forse no. Lo sentì muoversi, lo guardò risvegliarsi. Le braccia nude e la schiena muscolosa.
“Ehi. Che ora è?”, la sua voce roca le arrivò piacevole.
“Non lo so. E non so dove sono.”
“Sei a casa mia”
“E tu chi sei?”
“Billy e tu?”
“Alice”
“Ci abbiamo dato dentro ieri sera, ho la testa frantumata”
“Non mi ricordo un cazzo”
“No?”
“No”
Non era sicura di voler sapere i particolari. A volte diventava una scocciatura chiedere scusa e giustificarsi. Preferiva di gran lunga non ricordare. Fare finta di niente. Ricominciare la sera stessa senza freni, senza limiti. Preferiva così.
“Non ti ricordi che hai rotto in testa una bottiglia al tipo con cui stavi e che mi hai trascinato in bagno?”
“No”
“E che mi hai chiesto di continuare a casa mia?”
“No”
“E che… ”
“No, e falla finita. Hai qualcosa da mangiare? Ho fame”
“Sì, dev’esserci qualcosa, fammi pisciare e poi vedo”
Lo osservò alzarsi. Sorrise. Carino. Non deve essere stato male. No. Si passò una mano tra i capelli e vide una scia rosso sbiadito sull’avambraccio. Scia rossa secca. Sangue rosso secco. Un flash dello sguardo sorpreso di Luca, mentre la bottiglia si frantumava sulla sua testa. Si ricordò di quella roba che in un sorso le scendeva nello stomaco per risalirle in testa e che le era scoppiata scheggiandole i sensi. Si ricordò la vodka e le pasticche, si ricordò di essere rimasta senza soldi. Sbadigliò.
E mentre si stiracchiava rivedeva gli ultimi mesi. Si rivide a chiedere scusa a sua madre per averla insultata davanti a tutti con due litri di gin liscio nello stomaco, a chiedere scusa a suo fratello per avergli distrutto l’auto in quella sera di acido e coca, si rivide in silenzio davanti allo sguardo disgustato di suo padre mentre apriva la porta e le chiedeva di uscire dalla loro vita. Si rivide piccola, alla sua festa di compleanno, con gli amici attorno e i palloncini e le candeline da soffiare via, dare una manata rabbiosa alla torta alla panna rovinando a tutti la festa. Si rivide raggomitolata sulla sua brandina, in una stanza senza colori, l’intonaco scrostato e i murales anarco-surreali a coprire la muffa, ospite di amici cambiati anche loro da abitudini sballate. Guardò la parete blu.
Sul soffitto la scritta “Sei a casa”. Casa di chi? Dentro la sua testa quel ronzio rassicurante. Le ossa rotte, il corpo nudo, asciutto, esausto. La fame. Forse due giorni senza cibo, cibo vero.
“Allora ti muovi? Ho fame!”, gridò in direzione di quella che doveva essere la cucina
“Non rompere, ho quasi finito!”
Carino. Stavolta non le era andata male. Luca? Lui stava bene, sì lui doveva per forza stare bene. Gli avrebbe chiesto scusa e tutto sarebbe andato come sempre. Nessun problema. Sorrise, stanca.
Stanca.
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Per gentile concessione del
Circolo Scrittori Instabili, blog sul quale si sperimentano gli appassionati che hanno frequentato i corsi di scrittura creativa tenuti da Barbara Favaro.