«Mi hanno chiesto il perchè»
di Cinzia Tiseo

Ha vinto il concorso e da un momento all'altro la "profe" ha dovuto cambiare scuola. Al termine dell'ultima lezione l'ha comunicato ai "suoi" ragazzi. Ecco sull'Eco le sue riflessioni


Sono una di quelle insegnanti con la valigia pronta dietro la porta che si è spostata verso il Nord per andare ad insegnare.
Dico con la valigia perché da un momento all’altro, in un lasso di tempo che va da agosto a novembre, a noi, insegnanti con la valigia pronti a tutto, potrebbe capitarci di essere convocati dall’altro lato della provincia.

E così, come ogni anno in questo periodo, in attesa della prossima convocazione e in balia degli algoritmi del Ministero, restiamo col fiato sospeso, con la paura di dover trovare un’altra casa e caricare nuovamente la macchina e il cuore per riportarci dietro quel mondo fatto di masserizie e affetti lontani.

Fortunatamente è da un po’ che insegno, per cui sono riuscita ad assicurarmi lo stesso posto nella stessa scuola da ormai tre anni.
Una scuola un po' defilata, incastonata in una valle che avevo scelto un po' per caso, senza sapere di preciso dove fosse posizionata geograficamente. Ed è proprio lì che oggi lascio il cuore.

Allo scoccare del mio quinto anno di insegnamento, ho sostenuto il concorso per l’immissione in ruolo.
Dopo tanti mesi passati a studiare e un precedente concorso a crocette andato male, svolgerò il mio anno di prova grazie al concorso straordinario bis.

Ma a quale prezzo?
Lasciare la scuola in cui insegnavo da ormai tre anni.
E nonostante sia felice per il traguardo raggiunto, non è a cuor leggero che sono andata via. Eppure l’ho fatto, facendola sembrare ai miei studenti come la cosa più naturale del mondo.

Il 29 ottobre 2022 è avvenuta la mia presa di servizio nella nuova scuola
.
“Da che scuola arriva, professoressa?”, mi chiedono dall’alto.
“ITIS Perlasca della Valsabbia”, rispondo io.
“Ah beh allora sa già come fare”.

Non credo di sapere esattamente tutto, ma so bene quanto ho imparato grazie a questa scuola.
Il 28 ottobre ho condotto le ultime lezioni ai miei ragazzi, un po' vivaci, come sempre, ma ignari di quello che gli avrei detto a fine ora.
Nonostante sapessi di questa insensata permuta di insegnanti messa in atto dal Ministero, ho sperato fino all’ultimo che le cose potessero andare per le lunghe.

Purtroppo, contro ogni previsione, questa volta sono stati celeri; dunque pochi giorni dopo la fine del concorso, 7 ottobre, la graduatoria regionale è uscita e in men che non si dica ci hanno fatto scegliere provincia e scuole.
Tanta agitazione e molto poco tempo per pensare. Molti insegnanti si sono ritrovati a dover accettare un posto fuori provincia o comunque molto lontano da casa e famiglia.

Prendere o lasciare.
Ma oltre alla dimensione personale di ognuno di noi, nemmeno lontanamente considerata da chi ci sposta come fossimo pedine, credo sia stata dimenticata la tanto decantata continuità didattica, che stavolta è andata ad infrangersi contro una realtà burocratica difficilmente traducibile.
So di colleghi che hanno preferito rinunciare al tanto agognato “posto fisso”, pur di non lasciare le classi in cui lavoravano da anni, pena l’esclusione dalla graduatoria.

Quale ragione abbia condotto gli organizzatori di questo concorso
a spostarne i vincitori ormai già in servizio da settembre, lasciando che le loro cattedre venissero nuovamente occupate, resta un mistero.
Non sarebbe stato più coerente lasciarci tutti dove eravamo e permetterci quantomeno di portare a termine il lavoro già iniziato?
Tuttavia, l’amarezza non mi ha impedito di fare le mie lezioni, pur sapendo che sarebbero state le ultime in questa scuola.

Dov’è andato a finire il bene dello studente
a cui tanto si inneggia dall’alto del Ministero dell’Istruzione e che solo noi insegnanti provvediamo puntualmente a salvaguardare giorno dopo giorno?
Non sono forse gli insegnanti quelli che attraverso un percorso di tentativi, errori e conquiste rivedono e adattano le proprie strategie intessendo un proprio stile di insegnamento poliedrico e adattabile alla moltitudine dei bisogni educativi degli studenti?

Insegnare non vuol dire forse trasmettere un messaggio di lealtà che talvolta va ben aldilà dei semplici contenuti didattici?
Eppure chi vuole fare questo lavoro in Italia deve sottostare ad un meccanismo burocratico paradossale che prima ci butta nelle classi a tappare buchi, e solo in un secondo momento ci dice che dobbiamo formarci, senza tenere conto del fatto che la competenza del docente ce la si costruisce man mano stando in classe.

Inutile menzionare quante considerazioni questo sistema di reclutamento fuorviante susciti a scapito di chi questo lavoro lo fa con dedizione.

In questa fase della vita in cui ottengo quello che da mesi stavo aspettando, un po' mi sento sconfitta. Sconfitta da uno Stato che mi ha messo alle strette oggi per domani, rendendo vere e proprie utopie la continuità e la centralità dei bisogni educativi propinate dai libri che finora ho letto, non soltanto per dare prova alla commissione esaminatrice, in soli quindici minuti, di quanto fossi capace in classe ma anche per provare a migliorarmi.

La vera vittoria per un’insegnante non è forse condurre le proprie classi all'esame finale dopo anni di continuità?
Ho assaporato il mio ultimo giorno di lezioni al Perlasca fino all’ultimo respiro prima di informare i miei ragazzi del fatto che da quel momento in poi la scuola avrebbe provveduto a sostituirmi.

Raramente mi sono sentita impreparata come il momento in cui mi hanno chiesto il perché.
Eppure ogni “perché” ha perso di significato di fronte alla consapevolezza di ciò che mi sarei portata dietro: i frutti di questi ultimi anni trascorsi a migliorarmi tramite i miei ragazzi, in questa scuola, l’Istituto Giacomo Perlasca della Valsabbia, a cui oggi dedico il mio traguardo.

Cinzia Tiseo

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