Bestiario d'agosto
di Leretico

Andare al supermercato una mattina d’agosto può diventare un’esperienza eroica. La necessità di sopravvivere può spingere l’essere umano a tentare anche queste temibili imprese



Parcheggio difficile, affollamento e caldo non aiutano. Sono fortunato, trovo posto quasi subito. Mia moglie scende, entra nel supermercato per il rito quasi quotidiano del santo consumo. Seduto in auto a motore spento, apro tutti i finestrini. Sembra un’idea utile ma risolve solo in parte il problema del caldo.

Guardo nello specchietto retrovisore, il mondo appare simmetricamente invertito.

Mi ricorda il “mundus inversus”: tutte quelle storie antiche di un mondo capovolto come nel carnevale: bambini che diventano adulti, adulti che tornano bambini. Padroni che si fanno servi e servi che fanno i padroni. Uomini che si fanno animali e animali che si fanno uomini.

Aspettando che la mia dolce metà ritorni con i beni primari per la sopravvivenza, sono già pentito di aver accettato l’avventura più classica del cavalier servente. Il caldo è opprimente anche se fortunatamente sono all’ombra di un generoso gruppo di piante che crescono proprio vicino al posto dove ho scelto di fermarmi. L’euforia per la mia piccola vittoria di un posto al fresco scema in pochi secondi, l’aria è pesante, afosa.
Chiudo gli occhi: ascolto le voci dei turisti che sovrastano quella della radio che ho lasciato accesa in sottofondo. Camminano e mi oltrepassano diretti all’entrata del supermercato. Alcuni parlano lingue nordiche, le riconosco per la quantità notevole di “h” aspirate, “z” e “w” che riescono a inanellare magicamente in pochi attimi nei loro strani discorsi.

Per fortuna altri parlano italiano, allora comprendo. Una coppia si scambia parole dolci. Colgo solo un “Ti ricordi? Mi sono invaghito di te che mi sembravi una cerbiatta… ”.

In questi giorni d’agosto, come i miei amici sanno anche troppo bene, mi interesso di metafore “animali”, dunque di fronte alla languida immagine di una dolce cerbiatta apro gli occhi e giro lo sguardo incuriosito per individuare subito la coppia da cui proviene quell’immagine poetica.
Lui è magrissimo, alto, pantaloni corti eleganti su sandali germanici inguardabili. Ha una mano appoggiata sulla spalla della consorte. Lei, più bassa, è un po’ troppo in sovrappeso per non soffrire terribilmente quel caldo opprimente. Noto che, civettuola, gradisce comunque quel braccio appoggiato sulla spalla, nonostante la pelle arrossata dal sole sulla schiena stia gridando vendetta.

Sono appena scesi da un SUV enorme, che sbuffa ancora come un bisonte trafelato una decina di metri più indietro: tutte le trecento ventole dedicate all’aria condizionata in dotazione a quella specie di carro armato protestano rumorosamente per la fatica.

Lei soffre stoicamente il caldo, non vuole lasciar andare da solo quella capra di suo marito a fare la spesa, soprattutto adesso che stanno per raggiungere la località in montagna dove hanno la seconda casa. Il frigorifero è vuoto e lei non vuole che venga riempito di alimenti immangiabili: insalate, ortaggi, angurie e altre amenità simili.

Per questo affronta caldo e sudore con la stessa determinazione del torero che affronta sangue e arena. Lo capisco dal modo in cui tiene la schiena dritta e guarda avanti, mentre lui le suggerisce frasi misteriose inclinando la testa con studiata affettazione.

Lui è un tipo brillante, si vede da come cammina. Lancia i piedi in avanti con una certa baldanza, senza preoccuparsene. Sono certo che adotta la stessa camminata anche quando entra in ufficio: sicuro che il terreno su cui appoggia i piedi temerari lo sosterrà sempre.
Si allontanano da me, entrano nel supermercato dove la temperatura è simile a quello della Groenlandia in una sera d’inverno.

Ma ecco, nella mia visuale compaiono due strane signore, agghindate in fotocopia con lunghi vestiti di panno chiaro e cappello stravagante. Ho un déjà-vu disneyano: sembrano le gemelle Bla Bla, Adelina e Guendalina, le famose oche degli Aristogatti. Camminano nello stesso modo. Sono dirette alla loro vecchia Volkswagen parcheggiata rumorosamente qualche posto più in là rispetto a me.

La cassiera del supermercato non gli è proprio piaciuta. Si lasciano scappare stizzite: “Quella gallina ci ha fatto perdere un sacco di tempo!”. È noto che tra galline e oche non corre buon sangue.

La mia fantasia, già vorticosamente in funzione, complice il caldo comincia a trasformare tutti gli avventori del supermercato in animali fantastici. Compare Renard la volpe: la riconosco da come gira d’impeto lo sguardo interrogativo verso di me con una leggera pausa dopo aver chiuso furtivamente nel bagagliaio le borse della spesa appena fatta.

Compare Bruno, l’orso enorme dalla camminata ondeggiante e incerta, alle prese con una confezione di patatine che ostinata non vuole liberare le ultime briciole di piacere. L’auto con cui si sposta è piccolissima, ma Bruno con agilità insospettabile ne apre la minuscola portiera, si piega come Gianmarco Tamberi alle olimpiadi, e vi sale con nobile leggerezza. Dopo un attimo di pausa chiude con decisione l’incolpevole portiera e lascia per sempre il parcheggio. Forse il gregge lo ha innervosito. Non tutte le pecore, in fondo, sono innocenti.

Nonostante il caldo non scendo dall’auto, accendo la radio. La mia dolce consorte si attarda, forse ha incontrato qualche collega, forse il racconto di qualche conoscente l’ha bloccata alla cassa. Sembra che l’unico luogo d’incontro tristemente rimasto nell’era covid sia la cassa del supermercato.

L’era ante covid è persa nelle ombre del passato, mentre alla radio Paolo Conte canta “un giorno Gondrand passerà / te lo dico io / col camion giallo porterà / via tutto quanto e poi più niente resterà / del nostro mondo / da-da-da”. Sì, il camion giallo di Gondrand è passato anche qui.

Vorrei essere altrove, come il gabbiano Jonathan Livingston, e mi commuovo quando alla radio, dopo Paolo Conte è la volta di Michele Zarrillo: davanti a me vedo una farfalla che si libra nell’aria e riesce a superare il muro degli alberi ombrosi che mi separa dall’infinito. Sono l’elefante inchiodato al mio sedile, con il peso addosso dei pensieri sulla vita e sulla morte, ma dentro di me so di avere un “cuore di farfalla”.
Mi sono distratto. L’afa fa brutti scherzi. La coppia proprietaria del bisonte SUV sta tornando dalla spesa. I due ora sono diversi, non si guardano, non si sfiorano nemmeno. Hanno comprato poco: a lei non piace quasi nulla.

Si guardano in cagnesco, li sento lanciarsi epiteti rabbiosi con tonalità gorgogliante. Lui, esasperato, le rimprovera che la passione smodata di lei per la nutella l’abbia condannata ad una volgare metamorfosi: la cerbiatta è diventate una mucca.

Lei, offesa e rossa per la rabbia, replica con voce rotta che sì, lei non è più una cerbiatta, ma lui da molto tempo è diventato un cervo!
Affilata la signora, seppur in sovrappeso: sa cosa significa mettere una pulce nell’orecchio, innestare un dubbio feroce che scava dentro come un tarlo.

Salgono infine sul loro bisonte addormentato, lo risvegliano dal sonno preistorico in cui era caduto e si dileguano zizzagando in mezzo al gregge che non sembra troppo spaventato al loro passaggio. La transumanza estiva verso il supermercato continua senza interruzione.
Sono stanco. Ho deciso di chiamare mia moglie con il cellulare per sapere se occorre inviarle il capitano Shakleton per il suo recupero. Quando sto per lanciare la chiamata mia accorgo che non serve più: la vedo spuntare tra le persone all’uscita. È soddisfatta, un gran sorriso le illumina il volto. La bellezza è un ente metafisico,e stavolta si è materializzato sul suo viso, nella gioia del suo sguardo. Mi basta questo per non sentire più la pesantezza dell’aria afosa d’agosto.

Fuggiamo anche noi. L’aria condizionata dell’auto mi aiuta e ordinare nuovamente i pensieri. Zarrillo ha lasciato il posto alle notizie del radiogiornale: il covid sembra calmo, una belva prigioniera nella sua gabbia aperta. È un mostro che sonnecchia, pronto a ricominciare a divorare le sue vittime inermi alla prima occasione. Speriamo le vaccinazioni funzionino, che il gregge sia immune e resista.

Ogni volta che nominano l’immunità di gregge, mi sento davvero una pecora in balia dei latrati dei cani. Troppi di loro vogliono guidare il gregge quando il pastore è addormentato: il lupo aspetta dietro la collina e noi ci sentiamo sballottati a destra e a manca ad ogni notizia, non sapendo che direzione prendere.

Guardo in alto e vorrei essere un’aquila, mi piace la sua nobiltà, il suo volo filosofico sopra le cose del mondo. La voce gracchiante della giornalista alla radio mi riporta in auto, alla mia realtà: riesco a capire che il Governo italiano ha chiesto si abbandonino velocemente gli uffici dell’ambasciata in Afghanistan e si avvii un celere rientro in patria. Vent’anni di guerra inutile, otto miliardi e mezzo di euro spesi solo dall’Italia - più di settecento spesi dagli Stati Uniti - per convertire alla democrazia un popolo la cui maggioranza non la desidera affatto.

Se ritorno a questa semplice considerazione, ossia che la democrazia è un oggetto complesso che emerge solo a certe condizioni storico-culturali, subito mi dico: “qui casca l’asino”.

Eh sì, l’asino questa volta è proprio cascato. L’abbiamo messo alla prova come si usava durante la Prima Guerra mondiale. In quei tempi, risalendo le Alpi verso i confini più erti, nei punti più impervi e difficili, sui ponti malfermi, prima di far passare la truppa, si mandava avanti il povero asino a verifica. E qui, con il ritorno dei Talebani a Kabul, i ponti sono crollati e l’asino è davvero cascato.

Rientro a casa. Ormai il gregge, i lupi, i bisonti e le galline sono scivolati nell’indistinto. L’asino, tuttavia, resiste cocciuto nella mia mente, non mi vuole abbandonare.

Alla fine comprendo, mi rendo conto: l’asino è una metafora latente e potentissima, radicata in profondità nella nostra cultura anche per una ragione molto pratica: ogni volta che l’asino va al potere si trasforma sempre in pagliaccio.

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