Solitudine e isolamento in adolescenza, come aiutare i giovani
di Giuseppe Maiolo

La solitudine è per chiunque una compagnia difficile e faticosa, ma l’isolamento lo è ancora di più perché tra l’una e l’altro c’è la dimensione dell’esclusione e il sentimento pesante della perdita di contatto con il mondo


In adolescenza lo stare da soli corrisponde al vuoto, al non avere relazioni e scambi con i pari che in quell’epoca sono vitali.

Il distanziamento che il Covid ci ha imposto per proteggerci e proteggere gli altri è stato ed è un’esperienza dura da sopportare. Per tuti. Ma di certo una limitazione ancora più pesante per i giovani, la cui vita esplode di energia e si manifesta con l’acuto bisogno di esplorare la realtà per capire se stessi e gli altri, il mondo e i suoi accadimenti. Sappiamo che le relazioni virtuali hanno un po’ attenuato il vuoto di rapporti reali e il rischio di ferite depressive gravi. In effetti la condivisione anche a distanza ha avuto il suo valore. Così come la privazione del contatto reale ha consentito agli adolescenti di riconoscere l’importanza dello stare insieme fisicamente.

Lo dice bene Chiara, una ragazza di 17 anni che qualche giorno fa ha mandato a la Repubblica una lettera aperta in cui scrive “Guardavo i miei compagni con questo distacco virtuale alienante e pensavo a quanto mi mancasse la dinamica di classe, stare a lezione, dividere la merenda, passare i bigliettini, parlare e riabbracciarsi”.

Può meravigliarci questa scoperta perché pensavamo i giovani fossero legati da rapporti virtuali sviluppati in maniera massiccia con la mediazione dell’onnipresente smartphone.Eppure ce lo confermano i dati della recente indagine IPSOS per Save the Children che rileva come l’85% dei giovani tra i 14 e i 18 anni dichiari di aver capito quanto è importante l’amicizia reale, quella vissuta in presenza, fatta di contatto e corpo.

Però fa riflettere Chiara quando dice: “C’è molto altro oltre alla scuola per noi ragazzi: nessuno pensa a quante cose ci stiamo perdendo, a quanti ragazzi è stata tolta la possibilità di vivere tante prime volte, la prima volta in discoteca, la prima uscita con qualcuno che ti piace…”. È una denuncia severa agli adulti di riferimento che non conoscono (o hanno dimenticato) cosa conta di più in quell’epoca. Ma ci serve anche sapere dall’indagine IPSOS che il disagio dei giovani si manifesta con stanchezza, irritazione, ansia, scoraggiamento e che uno su cinque adolescenti si tiene dentro quel malessere, non condivide con amici e familiari il pesante fardello delle sensazioni negative. Domandiamoci se è perché non c’è nessuno che ascolta.

Personalmente credo che sia anche questa solitudine da comprendere. C’è bisogno che la comunità educante si occupi di questo. DAD o non DAD è necessario che sappia offrire ascolto a quel sentire interno che non esce e, più che riempire le loro menti di pensieri già pronti, sia in grado di mettere a disposizione spazi scolastici dove riflettere e rielaborare insieme l’esperienza vissuta in questi tempi.
Come genitori e insegnanti dovremmo smetterela di infantilizzare i ragazzi dando loro solo il compito di riprodurre i “saperi”, ma faremmo meglio a coinvolgerli di più nella ricerca di strategie utili ad affrontare la bufera. Dovremmo sapere ascoltare il loro pensieri sul futuro e caso mai porre domande sulle conseguenze che si possono immaginare.

Dovremmo saperli sollecitare a un pensare impegnato riguardante la sostenibilità delle risorse per il pianeta così come, molto più vicino a loro, farci aiutare nell’impostazione delle lezioni a distanza. Diamogli il compito di aiutarci e consentiamo loro di fare qualcosa per tutti. Credo sia un’opportunità preziosa per crescere e sviluppare responsabilità, iniziativa, creatività.

Spingiamoli a pensare progetti. Facciamoli agire e poi chiediamogli il conto con verifiche autentiche e valide. Lasciamoli cadere perché sappiano rialzarsi, apprezziamo il valore degli inciampi e riconosciamo i loro meriti, quando ci sono. Smettiamola di pensarli bambini incapaci di cavarsela e accettiamo che siano cresciuti. Perché come conclude Chiara nella sua lettera, adesso ci dobbiamo aspettare che siano loro a tenerci per mano.

Giuseppe Maiolo
psicoanalista
Università di Trento
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