Il costo di non credere nel futuro
di Leretico

Il dilemma più insidioso di questi mesi di pandemia è senz’altro legato alla scuola: non tornare a scuola per depotenziare il contagio, oppure tornare a scuola, sfidare il virus e contribuire forse alla sua maggiore diffusione?


Non è una domanda dalla facile risposta.
La paura domina ormai ogni decisione pubblica, ancor più se legata al mondo dell’istruzione.
La decisione italiana per sciogliere l’impasse è, come al solito, il compromesso: un po’ si va a scuola e un po’ non si va. Come dire: un po’ non abbiamo paura, perché le misure anticovid adottate ci sembrano adeguate, un po’ siamo diffidenti e non ce la sentiamo di rischiare.
Dimezzati tra potenza e atto.
I due atteggiamenti, infatti, non si conciliano, ma in Italia tutto è possibile, anche mettere insieme il diavolo con l’acqua santa.

Sulla scuola ormai è chiaro quale sia l’atteggiamento di fondo: da un lato roboanti dichiarazioni di attaccamento al valore dell’insegnamento e dall’altro investimenti ridotti, disorganizzazione, ritardi e, soprattutto, decisioni che dimostrano quanto poco l’ente pubblico scuola sia a favore degli studenti piuttosto che a supporto delle esigenze dei professori.

D’altronde, non potrebbe essere diversamente visto il poco valore che la società italiana riserva ai giovani.
Per essere diretti e chiari: in una società mediamente anziana come quella italiana, i giovani non sono considerati una risorsa ma un pericolo, spese non investimenti.

Secondo questa visione distorta, i giovani costano e il ritorno da tali esborsi non è immediatamente tangibile, oltre che incerto. Meglio investire in altro, dal ritorno immediato, magari con un vantaggio elettorale sicuro e celere. Di questi tempi il consenso vale più dell’oro.

Dopo la sbornia di antipolitica
, non abbiamo ancora recuperato la necessaria sobrietà per prendere decisioni corrette in tema di scuola e la pandemia non ha fatto altro che evidenziare il problema di fondo.
Un paese pieno di debiti, invecchiato, deve pensare al contingente che cade a pezzi, non ha denari per il futuro. E poi studiare, diplomarsi, laurearsi non ha, mediamente, più legame con la professione di destinazione.

Un tempo ci dicevano di studiare perché era l’unico modo per trovare un lavoro.
Oggi, anche se indirettamente, stiamo dicendo ai nostri giovani che studiare è inutile, perché nulla può garantire il loro futuro, e mentre con decisioni e comportamenti gli sbattiamo in faccia questa assurda verità, lo facciamo nascondendo loro che, da tempo, abbiamo già ampiamente consumato le risorse che adesso sarebbero dannatamente necessarie per loro.

Consegnando un messaggio di questo tipo, non dobbiamo poi sorprenderci che gli abbandoni scolastici siano così numerosi, che la percentuale di laureati sia molto bassa rispetto al numero iniziale di iscritti.
E invece ci sorprendiamo!
Più sentiamo grida di allarme, lanciati dai vari media, più ci sembrano “grida manzoniane” per la retorica numerosità e per l’inevitabile inefficacia.

In questi ultimi anni ho notato un tragico parallelismo di crolli.
Sono crollati numerosi soffitti di aule scolastiche, con tragici effetti e, quasi contemporaneamente, sono crollati ponti famosi, orgoglio tecnico degli anni del boom economico.
Solo di fronte alla tragedia lo Stato si è mosso cercando di reagire al disastro. Ma tutto si è risolto in singoli interventi, benché grandiosi.
Si è ricostruito il ponte Morandi in meno di due anni, ma tutti gli altri ponti malmessi rimangono nel loro stato, aspettando la prossima tragedia.

Un po’ di teatro, grandi inaugurazioni, belle parole, guarda caso pronunciate da ultrasettantenni, e poi tutto inesorabilmente come prima, sempre lì a camminare su un filo sospeso sul baratro della tragedia.
Medesimo destino per la scuola: frasi di circostanza, grandi piani, ministri pronti alla mirabile riforma su cui mettere la propria firma. Siamo pieni di buone intenzioni con le quali stiamo lastricando il cammino verso l’inferno.

In verità i ponti e le scuole parlano di futuro, di risultati da raggiungere, di sogni da realizzare, di divisioni superabili e da superare, di unione possibile e unità realizzabile. I ponti e le scuole sono la nostra vera speranza per la realizzazione di un mondo migliore.
Tuttavia, la gerontocrazia italica non ha tempo, né sentimento, per credere nel futuro. Ha solo quello che ha potuto finora realizzare e vuole conservare.

Nell’illusione che l’esperienza già fatta costi meno dell’esplorazione di nuove soluzioni, non investiamo sufficientemente in ricerca, non investiamo sufficientemente nella scuola, non investiamo nell’innovazione delle infrastrutture e facciamo debiti per finanziare spese correnti.
Mi sembra ovvio, quindi, che se possiamo tenere le scuole chiuse – e la pandemia ce ne fornisce ampia giustificazione - pensiamo più al risparmio immediato che ne possa derivare invece di pensare al buco nero che stiamo creando nella preparazione dei nostri giovani.

Vorremmo che le cose stessero diversamente, vorremmo vedere più coraggio, ma lo spettacolo è questo.
Forse le condizioni per un concreto cambiamento non sono ancora mature, ma arriverà un giorno in cui tale cambiamento sarà ineludibile. Speriamo non sarà troppo tardi e di non essere troppo vecchi per saper apprezzare i risultati.

Leretico


zEppurSiMuoveMani.jpg