Perché tutti questi morti?
di Alfredo Bonomi e Giuseppe Biati

Pubblichiamo volentieri questo scritto che ci arriva da due valsabbini, uomini di cultura da sempre attenti alle dinamiche territoriali. Si tratta di un'analisi a tratti impietosa del nostro tempo...



... da leggere come contributo alla riflessione di cui fare tesoro, nella speranza che possa aiutarci a comprendere meglio cosa ci è successo e cosa ancora ci sta accadendo.

Si accettano commenti purchè costruttivi.
Per analisi o "controanalisi" più articolate attendiamo eventuali contributi, pubblicheremo volentieri anche quelli.

ANNO DOMINI 2020: “EPIDEMIAE FATALI TEMPORE”.
CONTAGIO E CATASTROFE.

Da Wan’an, ma sembrava all’Occidente una questione tutta cinese, si è diffusa la notizia di contagi epidemici moltiplicatori. In breve tutto il mondo veniva coinvolto, con decine e centinaia di migliaia di morti, di infettati, di ricoverati, con ospedali e presidi sanitari al collasso. Le misure sanitarie e precauzionali, spesso ritardate da incuria e incompetenza dei decisori politici, non sempre hanno sortito risultati positivi, con conseguenze letali e diffusissima paura di contagio e di morte.

Ma la fine della tristissima primavera e il calore dell’incipiente estate, con la parziale e, pareva, controllata diminuzione dell’ infezione, hanno liberato, come folaghe in volo, le masse di persone verso i lidi marini, le arditezze della montagna, le vie del turismo nazionale ed estero, gli agognati acquisti in città, le serali passeggiate sui vari corsi, i più disparati assembramenti, non ultimi quelli delle affollate discoteche di provincia, alla ricerca della dimenticanza.
Ma il ferale morbo camminava su quelle gambe, esplodendo ai primi freddi autunnali con inaudita ferocia, in una  tragica fotocopia dei primi mesi primaverili dell’anno.

Sicuramente la voglia di liberazione sprigionatasi dai pochi mesi precedenti di chiusure totali in casa, negli uffici, negli ambienti protetti, la voglia di evasione per una rivincita sulla natura, l’abbandono di raccomandate precauzioni da parte di infettivologi e virologhi, la disinformazione e le false notizie artatamente diffuse, la deresponsabilizzazione di tanti condita alle diffuse superficialità nella prevenzione  hanno avuto un grande peso nel riempire pronti soccorsi ed ospedali, conturbanti sale di rianimazione e dolorose sale del commiato.
Si è nuovamente sprofondati nella piena e feroce pandemia, coll’estremo tentativo di salvare lavoro e occupazione, economia e profitto, scuola e vita associativa, relazioni familiari, parentali, amicali.

Le dinamiche della vita politica italiana, anziché cercare le vie unitarie di una efficace azione collegiale di indirizzo e di comportamenti da esigere a tutela della salute dei cittadini, si sono frantumate in pretestuose polemiche, scambi di violente accuse, fragilità istituzionali, avocazioni e/o rigetti di competenze tra organi, organismi, direzioni, Stato e Regioni.
Il risultato, nella durezza dell’ovvietà senza sconti, è stato quello della conta finale di morti e feriti: eccessivi nella seconda ondata, tragici sempre, poiché non ne siamo ancora fuori!

Allora, questo particolarissimo e difficile momento che stiamo vivendo ci obbliga ad alcune considerazioni, forse dirompenti rispetto al tipo di società che ci siamo costruiti.
In fondo potrebbe essere un modo per cercare di osservare attentamente “l’opacità del presente” in cui ci troviamo, quello della “assoluta caducità”, il cui tema ruota attorno al vivere e al morire.
Da una parte il rischio “di essere contagiati da una malattia e non si sa proprio come sia successo”– ma l’OMS già due anni fa aveva lanciato un allarme di possibili epidemie-pandemie; dall’altra lo scoprirsi indifesi di fronte ad una possibile catastrofe del nostro sistema sanitario – ma non ci si ricorda che nell’ultimo trentennio almeno ci sono stati tagli di spesa, sulla sanità, di decine di miliardi di euro, risucchiati dalle varie finanziarie, anno per anno, subiti senza resistenza alcuna, giustificati e liquidati dai politici di turno come assenza di altre praticabili alternative.

Inoltre, in Lombardia,
le inefficienze del sistema sanitario (di sicuro unico, ma non per la conclamata e propagandata eccellenza quanto per il livello di elevatissima privatizzazione raggiunto) hanno determinato risvolti drammatici, di fronte all’emergenza pandemica.
È  anche – forse e soprattutto – la conseguenza del modo in cui negli ultimi 25 anni è stata gestita la sanità, dove quella privata, da semplice ‘portatrice dei propri interessi’, è divenuta prima un partner paritario del pubblico, poi, di fatto, l’alter ego della Regione.

Il risultato ottenuto è di trovarsi un’organizzazione della sanità pubblica sempre meno pubblica, concepita a misura di privati e man mano spogliata dei servizi di base – a livello epidemiologico, di medicina di famiglia e altro – che sicuramente, nella nostra fattispecie, avrebbero potuto limitare la stessa diffusione del virus.

Non ci si ricorda, poi, del quotidiano sopruso dell’uomo, specie predatoria più aggressiva del globo, nei confronti dei simili in guerre, genocidi, massacri; nei confronti della natura in inconsulti disboscamenti e atti rapinatori perpetrati e continuati delle risorse idriche e minerarie; nei confronti degli animali massacrati per sottrarre pellicce ‘sacrificate’  al vezzo esibizionista di dame vanesie e spensierate.
Dal decennio di crisi globale da cui proveniamo, non ancora assorbita – anche qui ci siamo scordati dell’analisi dei sistemi economico-sociali moderni come “continua crisi” – transitiamo verso una probabile carneficina sociale al di là di ogni immaginazione, catastrofica, appunto.

È doveroso allora cercare di alzare la testa.
Si pongono degli interrogativi: come reagire nell’improvviso irrompere di qualcosa di oscuro che non si riesce a controllare, come il contagio da coronavirus?
Come ci si può preparare ad un futuro che si preannuncia catastrofico?

Ancora, e più da vicino: “Perché tanti morti?” in quegli “immensi depositi di fatiche”, che sono la Pianura Padana, le Alpi e le Prealpi lombarde.
Giornalisti, esperti, politici, industriali, noi semplici cittadini, sembriamo tutti vittime di un analfabetismo ecologico.  
Dove eravamo quando già negli anni Novanta riviste specializzate gettavano l’allarme sulla Lombardia come la Regione più inquinata d’Europa, con malattie polmonari diffuse oltre i limiti di una accettabile proporzione?
Nel territorio bresciano (Valle Sabbia compresa, specifichiamo) circa 300 fabbriche erano classificate a rischio, secondo la cosiddetta Legge Seveso.

Queste  considerazioni potrebbero sembrare il frutto di un eccesso di radicalismo, se non che l’ “essere radicale significa proprio cogliere le cose alle radici. Ma la radice dell’uomo è l’uomo stesso, è l’uomo che lavora”, nel suo “camminare eretto” con andamento pieno di dignità e di lotta, di indignazione e di responsabilità, eredità del secolo dei Lumi e della Rivoluzione francese.

Purtroppo, come scriveva il filosofo francese Pierre Bourdieu, stanno arrivando i tempi della resa dei conti di una “spoliticizzazione egemonica eretta a prassi politica che pesca senza vergogna nel lessico di libertà, liberalismo, liberalizzazione, deregolamentazione, e tende ad assegnare un potere fatale ai determinismi economici, liberandoli da ogni controllo, e tendenti a sottomettere governi e cittadini alle forze economiche e sociali così liberate”.

Si parla persino di “democrazia illiberalecome nuovo modello conservativo e fondativo per determinare diritti non più universali, ma secundum volitum regis, soppiantando quelli naturali e consolidati, centrati, fin dai tempi antichi e “colti”, sull’humanitas, come dedizione piena dell’uomo all’uomo e alle sue peculiarità.
È, questo, un contesto che inquieta e spinge a riflettere.

Poi, nella quotidianità, si aggiunge quel sentimento anomalo e perturbante, nella sua duplice veste di normale familiarità e angoscia che inchioda, aspetti unificati quando ad essere contagiati, oggi, da coronavirus, sono il vicino, il conoscente, l’amico, una persona di famiglia, con involontario grottesco compimento: morte in solitudine, funerale fuori da ogni rito comunitario, elaborazione del lutto impedita, ferita aperta in un orizzonte di inquietudine economico-sociale che si preannuncia come disorientamento civico-culturale ed etico-politico di lunga durata.

Un tragico cortometraggio passa davanti ai nostri attoniti occhi e ci assedia giorno e notte, ed è la fila dei camion militari che da Bergamo vanno chissà dove, con i nostri cari in urne rigorosamente sigillate e prive del conforto parentale.
Tutto ciò che era scontato nel nostro vivere gira a vuoto sul posto. In tale “situazione-limite” si rischia il “silenzio della ragione”.
“Qualcosa manca” allora nella nostra città   e viene fatto, terribilmente ed inesorabilmente, emergere dal bubbone pandemico.
Corriamo il rischio di smarrire lo stesso desiderio di ricercare e finiamo per accontentarci di ciò che c’è, di materiale da conservare e di spirituale da non condividere.

E perché non parlare della scuola e del sistema istruzione (la fucina del Paese del futuro) che il coronavirus ha trovato massimamente impreparati, aumentandone le fragilità e la mancanza di investimenti a largo spettro e a lungo termine?
Ci si è rifugiati, dai livelli ministeriali più elevati fino ai periferici detentori delle autonomie locali, in provvedimenti raccogliticci, curando distanze e banchi (il contingente materiale), anziché prevedere e provvedere a interventi che avessero le peculiarità della corretta didassi, del profondo atto di insegnare, della condivisa e partecipata relazione.

La “risolutività” della didattica a distanza ha preso il sopravvento, anche se nel concreto e nell'oggi pare funzionare poco e male! Ma non va condannata come metodologia innovativa e di per sé. Serve ad integrare, non a sostituire!
L'utilizzo odierno, calato ex abrupto in un sistema impreparato, da una parte (insegnanti) e dall'altra (alunni), e in un contesto abbastanza drammatico, se non del tutto drammatico, ha reso tale modalità di difficile gestione, negli insegnamenti, negli apprendimenti, nei sistemi di verifica e valutazione degli apprendimenti e di conseguenza di quali e quante abilità e competenze sono giunte a dinamico compimento.

Anche  da un punto di vista pedagogico-didattico, il sistema DAD (didattica a distanza, appunto), se utilizzato in modo esclusivo, produce negli alunni piú giovani, oltre ad effetti di non-apprendimento, quelli di non-inclusione con aumento del divario tra alunni, differenziazioni di crescite culturali, perdita di alunni da un punto di vista scolastico.
Forse bisognerà imparare da queste situazioni contingenti, non del tutto positive, non solo a risistemare le metodologie didattiche, ma anche e soprattutto ad analizzare quali sono effettivamente i saperi del presente (i saperi utili e indispensabili, selezionati e priorizzati) e del futuro connessi ai valori, liberare le incrostazioni degli attuali programmi e metodi di insegnamento, rivedere le classi di concorso e le discipline di studio, rivedere gli orari degli insegnamenti, l'organizzazione in genere, ecc.

Un grande consulto nazionale sulla Scuola e sull’intero ordinamento-istruzione, insomma!
Cose che diciamo da anni e che non si sono mai fatte per ignavia ministeriale e di sistema!
Più volte abbiamo detto e scritto che l'attuale sistema scolastico andrebbe rivisto ab imis fundamentis: destrutturarlo, per ristrutturarlo! Non è più consono ai tempi attuali e futuri! Soprattutto per i nuovi saperi e i relativi contenuti, le metodologie, i cardini culturali di riferimento! In questo mondo i valori sono cambiati!
È cambiata anche l'etica, ad esempio! E la scuola é rimasta a proporre in continuazione riformette (numerose e misere) di ogni ministro di turno, tanti, troppi e per lo più incompetenti e di bassissima levatura culturale e sistemica.
Noi propendiamo attualmente per una scuola integrata, in classe e in DAD, purchè vi siano i presupposti di preparazione e di studio e non di estemporaneità rimediate all'ultimo istante.

In aggiunta alla sanità e alla scuola (guarda caso i sistemi di tutela e di conservazione dell’uomo da una parte e quelli del suo progresso mentale, psichico e spirituale dall’altra), tutto, oggi, nell’universo massmediatico, contribuisce alla confusione per sovra-informazione e diffusione di notizie opportunamente create false; il ‘qualunque’ in noi, di fronte alla perdita di controllo insita nella routine, tende in un primo momento a comportarsi come se contagio e catastrofe possibili non lo riguardassero; poi l’incertezza tende a fondersi in una immediatezza furiosa, spesso traducibile con il guadagno, con l’imperativo della crescita, nell’impinguamento del più noto degli acronimi: il PIL.

La vita come continua compulsività impedisce che il vissuto  venga sperimentato con riflessione; infine ci si placa nella inevitabile socialità ristretta del “io resto a casa”.
Questo sì, purtroppo, senza alternative, creando infelicità diffusa, ansia fino all’angoscia!
In un mondo dominato dall’ingiustizia, nel quale “non si dà vita vera nella falsa” e dalla “furia del fare” dell’ “uomo traboccante di energia”, si finisce per usare la “filosofia dell’interiorità” per coprire la reale “brutalità barbarica”  che riduce gli uomini a cose.

O si cambia radicalmente il passo mentale, che richiede critica e autocritica e conseguenti radicali determinazioni logico-oggettive o l’erpice della storia umana, così com’è, taglierà il terreno e rastrellerà indifferentemente terra, sassi, gramigna e prodotto.
Fuor di tragica metafora, sia la cultura elevata che va da sé, sia la realtà automa senza prospettiva, sia i relitti di politiche insensate nella perenne  corsa dietro l’emergenza e il consenso determineranno l’eredità disastrosa di un saccheggio del nostro pianeta.

Se ne uscirà con la speranza come “utopia concreta” del “cammino eretto” di uomini che lavorano finalizzati ai beni primari della vita, per stare in guardia nell’oggi ’contagio-catastrofe’, in una continua tensione al possibile migliorabile.
Un possibile migliorabile che parta dalla non desertificazione  delle istanze primarie dell’uomo e si diriga sui sentieri dei diritti e dei doveri sanciti, delle responsabilità assunte, delle costose rinunce se servono,  delle scelte incontrovertibili, delle legalità praticate, della ricerca di corrette coniugazioni tra benesseri individuali e collettivi.

Queste istanze, mentre salgono dal passato, non possono smettere di pulsare ritmicamente nell’oggi, negli individui-persone “in grado di guardare fuori dalla prigione del loro sé”, andando a  “comprendere  criticamente e andando a pretendere l’anticipazione formale della vita giusta” (J. Habermas, 1973).
Ciò implica l’uscire da se stessi nella consapevolezza della necessità di con-essere, essere con gli altri, in un reale “oltrepassare che conosce e attiva la tendenza insita nella storia  in modo che l’esistente non venga né celato, né scavalcato”.  

Si chiama anche “coesione sociale”,
quello che nei termini dell’analisi religiosa possiamo definire  con “comunità”!
“Si può dire che nell’animo come altrove dappertutto, il presente è gravido dell’avvenire”.  
In noi sta questa virtù (ri)generativa: “Poiché siamo initium, nuovi venuti e iniziatori per virtù di nascita, uomini che  prendono l’iniziativa, che sono indotti all’azione”.  

In chiusura, in merito al contagio in atto e alle prospettive catastrofiche (ma rimediabili) economico-sociali future, possiamo citare Bertolt Brecht in una lettera che scriveva ad Ernst Bloch (luglio 1935):
“Quando i mondi stanno crollando, bisogna fare assegnamento su qualcosa (….). Sarebbe grandioso se lei lavorasse alla filosofia e indagasse dove è che il pensiero professionale dell’Occidente va a picco, perché tende ad adattarsi a situazioni economiche e politiche non più sostenibili”.
Bloch si disse d’accordo.
È giusto che ognuno entri nella mischia e dia il contributo che sa dare, anche se il compito è arduo e difficile.

Occorre una “nuova logica” che dia modalità e direzionalità.
A volte, “quello che deve essere visto occorre ruotarlo davanti a noi… al tempo stesso in alto”.
E, allora, da una profonda e impensabile crisi religiosa, civica, morale vi deve essere una rigenerazione degli spiriti. I vari pensieri e le diverse pratiche attuative, dai più disparati punti di partenza, si indirizzino verso un fine unico e condiviso, evangelico nel religioso, costituzionalmente corretto nel laico, pariteticamente universale nei principi costitutivi comuni. Sarebbe  questo un reale anello di congiunzione per sviluppare una cultura “autonoma” e “alternativa”, capace di resistere alla “inculturazione” delle miopi politiche di cortile e alla ”alienazione” dei massificanti sistemi consumistici e dei suoi strumenti di mediatica moderna e suadente comunicazione.

Dicembre 2020
Alfredo Bonomi e Giuseppe Biati

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