Morì sotto i ferri, i chirurghi in aula
La mattina del 18 luglio di due anni fa entrò in sala operatoria per farsi asportare i calcoli alla cistifellea. Ma Rosaria Tavella, una 44enne di Nozza di Vestone, morì sotto i ferri all'ospedale di Gavardo. Oggi i medici davanti al Gip.

La mattina del 18 luglio di due anni fa entrò in sala operatoria per farsi asportare i calcoli alla cistifellea. Un intervento chirurgico di routine, Abbracciò il marito, baciò la figlia prima di affidarsi all’equipe di chirurghi dell’ospedale di Gavardo. Gli ultimi istanti «consapevoli» di una vita evaporata poco dopo sotto i ferri. Ora, per il decesso di Rosaria Tavella, una 44enne di Nozza di Vestone, la Procura di Brescia ha rinviato a giudizio, con l’accusa di omicidio colposo in concorso, due medici in servizio nel presidio di Gavardo.
Gli imputati, difesi dagli avvocati Andrea Ricci, Rinaldo Pancera e Gian Piero Mirandi, compariranno oggi davanti al gip Francesca Morelli per l’udienza preliminare.
Secondo le conclusioni dell’inchiesta condotta dal pubblico ministero Paolo Guidi, il decesso della paziente sarebbe stato causato «dalla violazione delle regole di diligenza, prudenza e perizia generiche e specifiche della professione medica». La Procura sostiene insomma che la violenta emorragia sopraggiunta durante l’operazione, e il conseguente decesso della paziente, sarebbero da addebitare ai due chirurghi, mentre sono usciti di scena gli altri otto indagati.
La tesi dell’accusa si poggia sulla perizia dei professori Franco Tagliaro e Alfredo Guglielmi dell’Università di Verona, incaricati dalla magistratura di accertare le cause della morte e quindi le eventuali responsabilità. In essa vengono descritte minuziosamente le convulse ore che portarono al decesso. L’intervento di colecistectomia laparoscopica, ovvero attraverso l’introduzione di canule da piccoli fori praticati nell’addome, a causa di una serie di difficoltà era stato convertito in laparotomia: la tecnica tradizionale chirurgica che prevede incisioni con il bisturi. E a quel punto si era presentata una emorragia di tipo prevalentemente venoso che i medici avevano cercato inutilmente, di tamponare con della garze.
Visto il perdurare della grave situazione era poi stato allertato un altro chirurgo, che utilizzando la cosiddetta «manovra di Pringle» era riuscito a bloccare il flusso. Ma era troppo tardi.
Nella relazione dei periti si parla di un comportamento dei sanitari «che sembra essere caratterizzato dal procrastinare il controllo definitivo dell’emorragia mediante la sutura chirurgica delle lesioni vascolari». In pratica, se i medici avessero praticato prima la manovra di Pringle la paziente si sarebbe potuta salvare; anche perchè «non sembra - si legge ancora nella perizia - esistessero controindicazioni all’esecuzione di questa manovra in fase più precoce».
Parole, in sostanza, che ricondurrebbero le responsabilità ai vertici dell’equipe presente della sala operatoria, che avrebbe tenuto «un comportamento eccessivamente dilazionante una radicale procedura emostatica».
Una tesi che sarebbe confortata dall’autopsia eseguita, poche ore il decesso, alla presenza del consulente di parte, il medico legale Alfonso Luciano.


da Bresciaoggi

 

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