Il tubetto del dentifricio
di Ezio Gamberini

Non riesci mai a capire quando è finito il dentifricio, con questi tubetti di plastica che riprendono sempre la loro forma iniziale, anche se li spremi...
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Da tempo immemorabile è così: soprattutto quando hai fretta, e in special modo, le mattine in cui devi andare a lavorare, che sono cinque su sette, ti ritrovi a litigare con quell’abominevole oggetto senz’anima, che schiacci e ritorci senza riuscire ad avere la completa soddisfazione della sua resa, poiché mai, in nessun caso, riuscirai a cavar fuori l’ultima goccia di dentifricio.

Che differenza con gli indimenticabili tubetti metallici
dei tempi che furono: l’alluminio si arrotolava su se stesso, delicatamente, mentre il dentifricio diminuiva man mano per l’utilizzo, e alla fine era una soddisfazione appoggiare indici e medi sul collo del tubetto, e con i pollici far pressione per utilizzare fino all’ultimo milligrammo della preziosa pasta.

L’altra mattina, mentre imprecavo tentando per l’ennesima volta l’impossibile (mi sono guardato allo specchio: ero paonazzo!), mi è parso di individuare nella “spremuta” del tubetto, una specie di pressione per ottenere ancora qualche cosa da una persona sfinita: insomma, ho paragonato un tubetto di dentifricio a un essere umano, al quale è richiesto uno sforzo irrealizzabile, dopo aver dato tutto ciò che era nelle sue possibilità.

E, proseguendo nel gioco delle analogie, subito nella mia mente si è insinuato un altro pensiero:

“Eh, però, questi “uomini” qua, sono proprio di plastica… neanche da paragonare a quelli di una volta!”.

E’ davvero strano considerare queste supposizioni da punti di vista agli antipodi tra loro: e chi l’ha detto che è necessariamente migliore ciò che a prima vista potrebbe apparire più consono o coerente con le proprie sensibilità?
E perché, qualche volta, non si prova a incrinare la solidità della corazza che ognuno di noi si è creato nel corso della propria vita, per vivere sensazioni diverse nel sentirsi “destabilizzati”, oppure, perché no, “destabilizzanti”?

Tentiamo l’esperimento partendo da un elemento assodato: c’è un’indiscutibile tendenza, in ogni uomo, a ogni latitudine, a considerare più saggio, evoluto e tecnologicamente avanzato se stesso, rispetto agli individui che vissero cinquanta, o cento, o mille anni fa.

Ma alcuni avvenimenti
, e molte vite di chi ci ha preceduto, mettono in dubbio queste considerazioni: Omero, secondo la tradizione autore sia dell’Iliade, sia dell’Odissea, che secondo Erodoto visse nel IX secolo a.C., mentre secondo altre fonti un poco più tardi, nell’VIII secolo a.C., narrò, nei poemi che tutti abbiamo studiato a scuola, le gesta di Achille e Ulisse, durante e dopo la guerra di Troia, avvenute quattro o cinque secoli prima, attorno al 1250 a.C.!
Azioni apprese attraverso la tradizione orale, tramandata per secoli, senza conoscere fino allora una stesura scritta, che comunque avverrà, per queste due opere, soltanto a partire dal VI secolo a.C.

Se riteniamo veritiera l’antica massima, “Verba volant, scripta manent”, nel senso comune in cui è generalmente conosciuta, cioè che la parola vola, mentre gli scritti rimangono, conferendo perciò assoluto valore a quanto è fissato per iscritto, immutabile, rispetto alla volatilità delle parole, resteremmo forse stupiti nell’apprendere che il senso della frase può essere percepito esattamente al contrario (ed è forse l’esatta accezione con la quale era considerata nell’antichità): le parole volano, vanno di casa in casa e si spargono nei luoghi, tra la gente, e corrono a una velocità impressionante, moltiplicandosi a dismisura e con valori esponenziali, mentre gli scritti rimangono magari sepolti, talvolta polverosi e inesplorati, per secoli, oppure per sempre, fino a riconoscere che “…il volto è meno cambiato in cinquecento anni di tradizione orale che in cinquecento anni di fantasie affidate alla scrittura”.

E che dire di San Francesco, figlio del ricchissimo mercante Pietro Bernardone, che avrebbe potuto spassarsela per tutta la vita (cosa che invece praticò per pochi anni), e invece scelse la povertà, con il risultato di scuotere e sconvolgere la Chiesa?

O Ludwig van Beethoven, che ha composto la maggior parte delle sue opere e sinfonie essendo completamente sordo, ritrovandosi privo dell’udito a soli trent’anni di età?

Oppure Stephen Hawking, astrofisico tra i più autorevoli al mondo, famoso per i suoi studi sui buchi neri, che a nove anni non sapeva ancora parlare bene e i suoi voti erano i peggiori della classe, costretto dalla SLA all’immobilità totale per decenni su una carrozzella?

Finito l’esperimento… prendo il tubetto del dentifricio e, finalmente, lo butto nel cestino.
Forse, alla fine, va bene, anche se non è di metallo, su…

Ho letto di Enzo Bianchi, il monaco laico fondatore della Comunità di Bose, nel 1965, e suo priore fino al 2017, costretto ad abbandonarla in seguito a decisioni avallate dal Vaticano.

Ha obbedito in silenzio, e un suo commento mi ha profondamente impressionato:

“Ciò che è decisivo per determinare il valore di una vita non è la quantità di cose che abbiamo realizzato, ma l’amore che abbiamo vissuto in ciascuna delle nostre azioni: anche quando le cose che abbiamo realizzato finiranno, l’amore resterà come loro traccia indelebile”.

Queste parole mi danno la certezza che
in futuro, quando ripenseremo a questi mesi trascorsi fra mille difficoltà, tra quarantene e costrizioni varie in seguito al coronavirus, ciò che resterà maggiormente impresso è il desiderio che abbiamo avuto ogni momento di rapportarci con i nostri cari e coltivare gli affetti.

Desideri d’amore, alla fine, e senza di questi, la vita è ben misera cosa.



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