In attesa del 25 aprile (parte 1)
di Giuseppe Biati

Quale valore dare, oggi, alla Festa della Liberazione. Ha ancora senso ripercorrere gli ideali della Resistenza? Cosa ne è rimasto? Pubblichiamo oggi la prima parte di un'ampia riflessione a cura del professor Giuseppe Biati



Il 25 aprile 2020 non è un giorno qualsiasi: è la festa della Liberazione!
Il Paese, sopraffatto per vent’anni dalla dittatura, infangato dalle leggi razziste (altro che razziali), dall’abolizione della libertà e dell’alleanza con i nazisti, riconquistava, 75 anni fa, la sua dignità di nazione.

Oggi, non possiamo commemorare questo splendido avvenimento con la nostra presenza fisica nelle consuete manifestazioni davanti ai cippi dei nostri caduti: lo facciamo nel chiuso delle nostre case – causa la pandemia in atto - per salvaguardare la salute di ognuno e di tutti, nell’osservanza dei decreti delle Autorità preposte.
Ma la riflessione, il ricordo, la commemorazione, la rammemorazione non possono che essere altrettanto profonde e significativamente apportatrici di risultati spirituali, morali, civici, nella sottolineatura di quei valori immensi che hanno portato a redigere il nostro atto fondativo e costitutivo della Repubblica.

Quel che ricordiamo e commemoriamo oggi, 25 aprile 2020.

Quel che ricordiamo e commemoriamo oggi è la fine della guerra più sanguinosa mai esistita, e insieme la fine di un regime totalitario per l’Italia e di un orrendo incubo per tutta l’Europa.
Una guerra in cui è stato sconfitto il nazifascismo e che ha visto nella sua ultima fase in Italia un movimento di popolo, non certo totale, ma ampio, di Resistenza militare e di Resistenza civile.

Senza quel movimento non si sarebbero prodotte nel nostro Paese libertà, democrazia e speranza di futuro.
Quel movimento in senso proprio cominciò nel 1943, ma la presa di coscienza che lo sostenne era preceduta da alcuni passaggi che è necessario ricordare.

Il consenso, pure ampio, degli italiani al fascismo si incrinò gravemente con le leggi razziste del 1938, non condivise e spesso subite; trovò ulteriori opposizioni nell’entrata in guerra di un’Italia sconsideratamente gettata allo sbaraglio nel 1940; si consumò definitivamente con l’occupazione tedesca e le ultime atrocità: stragi, deportazioni, genocidi, che hanno visto la Repubblica Sociale Italiana a fianco della Germania nazista, con responsabilità ampiamente provate.

Il risveglio dell’opposizione è stato insieme volontà e forza di (ri)costruzione: è stata Resistenza militare per tanti, è stata  Resistenza civile per molti.
E questo fu un  movimento europeo, che, in forme diverse, toccò molti popoli del continente.
Un movimento che si ritiene non debba e non possa essere offuscato da impropri revisionismi, né da un uso in qualche caso settario della violenza che ebbe luogo, come in tutte le guerre civili.

Oggi va senz’altro scarnificato dai miti, ma anche sottratto al compiacimento della ricerca di episodi e di movimenti aspri al fine di trasformarli in una chiave per delegittimare il significato della Resistenza.
E questo senza indugiare in dimenticanze e silenzi, che pure ci sono stati; per continuare, invece, a fare i conti con la memoria, anche quando è divisa e difficile da gestire.

Ancor più, oggi, con scenari internazionali e nazionali caratterizzati dall’avvento di “nuove ideologie” e dal “primato” della globalizzazione, con trasformazioni economiche e sociali che hanno provocato (e provocano) un’erosione della qualità della democrazia, generando, di conseguenza, una crisi delle istituzioni rappresentative, il consolidamento di oligarchie politiche con tendenza alla personalizzazione dei processi politici (con inaccettabili e provocatorie richieste di “avocazione dei pieni poteri”), con declino della partecipazione democratica, con la messa in crisi dei tradizionali pilastri dello Stato democratico e parlamentare, fino alle reciproche e sistematiche delegittimazioni di maggioranza e opposizione.
C’è un elemento cardine da salvaguardare: la libertà e la democrazia ottenute a caro prezzo non si mantengono di per sé, ma sono quotidiane conquiste!

“Per questa nuova città – scriveva Teresio Olivelli – lottiamo giorno per giorno perché sappiamo che la libertà non può essere elargita dagli altri. Non vi sono “liberatori”. Solo uomini che si liberano”.

Questa difficile e turbolenta situazione ci porta alla convinzione che la pace, la democrazia, la giustizia sociale, con i valori connessi di accompagnamento e di implemento (come il diritto alla casa, al lavoro e alla retribuzione, alla formazione – da lì si deve partire – all’ambiente, alla cittadinanza, ecc.), non sono una acquisizione definitiva, per sempre!

Vi è stata,  sicuramente, in questi 75 anni dopo la Liberazione, soprattutto con l’avvento di uomini al potere considerati “ricchi e forti”, un’erosione della democrazia.
Erosione quando le maggioranze hanno interpretato l’investitura elettorale come mandato a legiferare e governare in nome e per conto dei propri votanti e non per tutti i cittadini.
Si è rischiato, così, (ma non ne siamo ancora fuori) di usare la forza della legittimazione popolare contro il principio di legalità che, se svuotato dei contenuti etici minimi, permetteva (e permette), attraverso l’approvazione di nuove leggi, di far diventare legali comportamenti illegali.

Erosione con l’affermarsi dei mass-media (e la loro privatizzazione che invera il detto che “chi possiede i mezzi, determina i fini”) e con la conseguente estromissione della partecipazione dei cittadini alla vita politica: a determinare il consenso sono i salotti televisivi, i messaggi in rete, gli slogan, le “cifre”, gli “studi“ sulle opinioni di pancia  per  assecondarle.

Erosione quando si agevola il farsi strada di un liberismo utilitaristico, sfrenato, che non mette ordine nelle attese e nei bisogni secondo una gerarchia di valori, ma eleva il profitto e l’efficienza o la competitività a fine, subordinando ad essi le ragioni della solidarietà e, ultimamente, anche della salute.

Verso quale modello di società ci stiamo avviando?
Di quale tipo di “ammodernamento” del Paese ci parlano?
Se è la concezione dell’economia basata sulla mera logica di mercato, del “non si cresce abbastanza”, con la pretesa di gestire con categorie aziendali anche la politica, è una via senza sbocco. Una via che per sua natura favorisce i ceti più forti e fa ricadere il peso delle scelte soprattutto sui ceti più deboli; porta allo smantellamento dello Stato sociale, generando tensioni sia sul piano costituzionale (“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”… art. 3 della Costituzione), sia su quello sociale (“Ci sono bisogni collettivi e qualitativi che non possono essere soddisfatti mediante i  meccanismi di mercato”… - Centesimus annus).

Ma la Liberazione cosa è venuta a dirci se non quello di volere una nazione in cui i cittadini non siano mandati a morire in guerre ideologiche  o in gangli cancrenosi di malasanità; una nazione dove i giovani e laureati non siano costretti ad emigrare e dove l’istruzione non sia un privilegio di pochi, perchè tutti possano aspirare a migliorare le proprie condizioni, senza che qualcuno si debba infastidire se anche i figli degli umili aspirano a diventare dirigenti.

Una nazione dove gli ospedali e le scuole sono costruite con la doverosa tassazione o contributo di tutti, secondo l’aurea legge costituzionale della progressività: “Chi ha tanto, paghi tanto; chi ha poco, paghi poco; chi ha nulla, paghi nulla” (E. Berlinguer).

La Liberazione ha anche voluto una nazione senza discriminazioni religiose, di razza, di censo e di genere, laddove non si deve pretendere di imporre a tutti la medesima concezione di famiglia, riconoscendo la complessità e la bellezza  delle varie vite relazionali e affettive.
Ma all’oggi, troppe ancora sono le disuguaglianze in termini di opportunità e di diritti, ma anche economiche, rese più insopportabili da un’ideologia egemone per cui conta l’avere, non l’essere.

Troppa l’indifferenza ancora di fronte alle sorti del territorio, di fronte alla deriva etica, di fronte alle disparità di trattamento sul lavoro, di fronte alla violenza sulle donne e sui minori, alla violenza gratuita o agita per futili motivi di cui le cronache ci informano con cadenza quotidiana.
Bisogna allora riappropriarci dei valori resistenziali sanciti dalla Costituzione, viverli, farli vivere, conoscerli e farli conoscere!
La Carta costituzionale, frutto di quella lotta, c’è e va ogni giorno studiata, praticata, difesa, rivitalizzata, come il grande Calamandrei, nel discorso agli studenti milanesi (anno 1955), ricordava:

“Quindi, voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come vostra; metterci dentro il vostro senso civico, la coscienza civica; rendersi conto (questa è una delle gioie della vita), rendersi conto che nessuno di noi nel mondo non è solo, non è solo che siamo in più, che siamo parte, parte di un tutto, un tutto nei limiti dell’Italia e del mondo.
Ora io ho poco altro da dirvi.
In questa Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre gioie. Sono tutti sfociati in questi articoli; e, a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci  lontane…”.


Voci lontane, dai “tragici sotterranei della storia”, dai moniti apparentemente silenziosi dei cippi spezzati, voci sublimi, come quella del maestro elementare e di vita, giovane come eravamo tutti noi, Emiliano Rinaldini, invocante concordia e speranza:

“Ritorneremo, ritorneremo! Ma ora è necessario piangere e seminare, perché domani si possa vedere il frutto che compenserà le nostre fatiche piene di sciagure. Quel che ci deve preoccupare è lo sforzo per poter allontanare il pericolo di ritornare a premere coi piedi una terra nera, senza uno stelo. Cerchiamo di ricavare il meglio anche dal dolore che ci accascia e nutriamo in cuore la speranza…”  “…di un domani dove si possa vedere il frutto che compenserà le nostre fatiche”.

VIVA LA RESISTENZA, VIVA LA LIBERAZIONE, VIVA L’ITALIA!

Aprile 2020
Giuseppe Biati

.ogni citazione, nel testo originario, è corredata da relativa nota. Il sistema di immissione testi qui non ci permette di rispettarlo. Ce ne scusiamo con l'autore e con i lettori (Val)


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