«Dialetto, è il soffio vitale dei luoghi»
Prosegue la tournee di “A chi dimanda di me” il libro di Maurizio Abastanotti, affiancato dalle performance del teatro e del canto. Un grande successo dai mille perch. Pino Greco ci racconta cosa significa per lui.

Prosegue la tournee di “A chi dimanda di me” il libro di Maurizio Abastanotti che riporta lettere e diari di soldati valsabbini e gardesani alla Grande guerra del 1915-18. Presentazione di Marcello Zane, seguito musicale e teatrale col Teatro Poetico di Gavardo e con il Coro La Faita, con Andrea Giustacchini e la regia di John Comini.
Sarà così anche questa sera venerdì 9 maggio a San Felice del Benaco, alle 20 e 30 all’ex Monte di Pietà.
Un grande e ripetuto successo dai mille perchè: Pino Greco, terrone di Pescara, innamorato della Valle Sabbia e del suo dialetto, ci racconta il suo di perchè ...nonostante la Lega.



GRAZIE, DENI !

L’altra sera è stata la quarta volta in poche settimane. “La guerra negli occhi” è uno spettacolo che ti prende. Un mix singolare di sobrietà e di suggestioni forti. Un tavolo, una sedia e un corpo scarno, attorcigliato ad una voce intensa. Più indietro un semicerchio di ombre discrete.
Prima dell’inizio, la presentazione di un libro di lettere dal fronte. Quello remoto della Grande Guerra.
Certo, la prima volta ti può muovere la cortesia per lo scrittore. Un amico, anzi un compagno con la passione per la storia degli umili e degli eroismi dimenticati.
Ma dopo la seconda, la terza volta, cominci a chiederti il perché.

Pensi al carisma dell’interprete: ieratico e assorto, stentoreo e sommesso.
Pensi alla magia del coro. Quella sublime armonia che ti fa lievitare sopra la crudezza della narrazione.
Consideri anche l’abilità dell’autore e regista. Un testo in equilibrio tra citazioni colte e slang popolaresco, un’orchestrazione sapiente di suoni e di luci.
Insomma, gira e rigira, gli elementi dello spettacolo giustificano l’apprezzamento e l’applauso convinto, ma non spiegano quell’appeal misterioso che un sabato sera ti fa rinunciare a una cena fra amici per ritrovarti a riascoltare da capo l’odissea bellica del Tone, del Bigio, del Cecco e dell’ineffabile Beppe, fante sciupafemmine, da Soprazocco-Gavardo.
E’ stato al ritorno, alla rotonda di Tormini che s’è dipanata la nebbia.
Una volta dovevi destreggiarti fra camion, auto e corriere. Tormini era un dedalo di incroci e di strade di varia provenienza che si fondevano e risalivano la valle, tra il verde dei boschi, le rive del Chiese e le fabbriche di ruggine e fumo.
Per qualche decennio, oltrepassare Tormini per me ha significato tornare. A Natale, a Pasqua, dopo le ferie d’agosto. E tornare significava sintonizzarsi di nuovo con le atmosfere di quell’habitat prescelto come il posto della vita. La patria del lavoro, degli interessi, delle relazioni, degli affetti. La seconda patria, dopo quella delle radici e del sangue.

Stavolta ho girato a destra, giù verso il lago, ma le sagome scure dei monti hanno acceso la spia dei ricordi. E spiegato il mistero.
E’ stato il Deni, con il suono delle parole a far vibrare il diapason del sortilegio che mi ha avvinto per quattro serate a riascoltare di tradotte e di trincee, di “Savoia!” e di decimazioni, di amici perduti e di amici ritrovati.
Non era la storia, ma più semplicemente la modulazione del suo raccontare, le cadenze e il sapore del suo dialetto che intercalava, con naturalezza, i radi passaggi in italiano. Praticamente una sorta di mantra che pervadeva i sensi e parlava direttamente al cuore e alla mente.
Non mi accadeva da anni di immaginare, di intuire, di assimilare in dialetto. Di emozionarmi in dialetto. Più o meno da quando qualcuno aveva decretato l’estraneità all’humus e alle vicende valsabbine di quelli nati altrove.
E pensare che era stato un processo lungo e impegnativo.

Il dialetto non è solo vocabolario e grammatica. Il dialetto è montagne, mestieri, interessi, devozioni, leggende, ordinamenti, passioni. Il dialetto è calura, gelo, alluvioni. E’ abbondanza e carestia. E’ irruenza e magnanimità. E’ accoglienza e repulsione.
Il dialetto è il soffio vitale dei luoghi. Non basta stringere una vocale o troncare una parola per renderlo plausibile. Bisogna confondersi col paesaggio umano, mutuandone umori e vibrazioni. Bisogna compenetrarsi con le piazze, i campanili, i mercati, i funerali, le balere. E soprattutto con le osterie, a cibarsi di spiedi e di tiragne e di tutti quei sapori che custodiscono la storia dei luoghi e delle culture.
Ricordo certe tavolate un po’ sbracate con quelli dell’US Nozza. La domenica mattina si andava a correre, al bòt, appuntamento al Montesuello. Si sconfinava spesso con la cena e oltre. Fumo, canti, baldorie, bottiglie avanti e indietro, ed io rapito e concentrato a decifrare le tirate incalzanti del Milio, del Nilo, del Franchino, del ‘Gosto, del Bruno Cipoll…

Potevo capitare alla “Birreria” de l’Aldo, a captare le dissimulazioni concitate di un “ciapa- no’” fra gli autisti SIA, oppure l’epopea sboccata della Bella Angiolì e la sua proverbiale professionalità dispensata tra gli alpini del Battaglione “Vistù”.
Veniva buona anche la sezione. Certo, la sezione comunista di Vestone, con i borborigmi ermetici del compagno Resenti Bruno, detto “il Lenti”.
Non c’era posto dove non si imparava una parola nuova, una locuzione forte, una simpatica sconcezza da riporre nel prontuario delle relazioni quotidiane.
In quella specie di archivio che ti soccorreva in ogni circostanza e ti faceva sentire dentro. Sempre e comunque. Dentro la storia e il tessuto sociale di una valle indaffarata e godereccia, austera e intrigante. Quella che, senza tanto pensarci su, ti veniva naturale chiamare la nostra valle.
Già, perché allora la Valsabbia era ancora un pezzo d’Italia e a nessuno si negava la lusinga di farne parte .
Magari eri cresciuto ad agnello e cacio pecorino, ma poi avevi imparato a riconoscere la légor dal cavriòl, e ti sentivi a posto. Valsabbino a tutti gli effetti.

E così, ti commuoveva la Corna Blacca alla prima imbiancata. Ti inorgoglivano i primati economici, tutto sudore e ingegno. Ti ferivano i prati delle Pertiche strappati dalle frane. Ti facevano sentire solidale gli striscioni “Domenica donazione”. Persino una santella derelitta, restaurata dagli alpini, diventava simbolo condiviso di generosità e di sensibilità artistica.
Insomma ti sentivi parte. Riconosciuta e inclusa. Radicata.
Fino all’irrompere beffardo del Dio Po e della Padania. Da allora, il progressivo logorarsi di un’affinità. Un sentirsi ricacciato nella palude della diversità.
Perfino il dialetto, a un certo punto, ha cominciato a risuonare astruso, sfuggente, inespressivo.

Fino all’altra sera. Quando è tornato a parlare dritto al cuore.
Grazie al Deni e alla maestria del suo raccontare.

Pino Greco
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