A Prevalle tutto bene
di Alberto Saponi

Egregio Direttore, ci tengo a trasmetterle un mio pensiero, dal profondo del cuore, per l’ennesimo cartello luminoso apparso da poco per le vie del mio paese. La ringrazio per lo spazio che vorrà concedermi


Arrivavano, stavano arrivando, cupe e tenebrose nubi da Ovest, dalla Maddalena.
Veloci rombano e correvano verso il lago.

Noi prevallesi lo sappiamo che i temporali che giungono da lì, non sono mai leggeri.

Corsi così per via Bonsignori, pedalando forsennatamente, tanto da sembrare un Filippide su due ruote, verso casa.

Le fronde degli alberi cominciarono a dimenarsi, sospinte da una nuova aria, quasi fredda, che aveva soppiantato l’afa di quella giornata.
Quel rettilineo sembrava infinito, e quando, finalmente, giunsi alla grande curva che mi avrebbe immesso in via Gardesana, rallentai, scuotendo la testa, arroccandomi in un malinconico sorriso, dinanzi alla luminescenza sinistra di quello slogan spagnoleggiante che gridava “Adelante Cataluña” (tipica espressione spagnola, per l’esattezza castillana, nazione dalla quale proprio la Cataluña chiede l’indipendenza.)


Un lampo ferì il cielo, dando così il via al valzer delle prime goccioline; lo seguì un tuono, forte profondo, avrei dovuto accelerare per evitare l’acquazzone.
Proprio nel momento in cui feci per alzarmi sui pedali, la scritta sul tabellone luminoso cambiò, e l’erronea frase venne sostituita da un’altra, una nuova.


Il sindaco della paura tuonava, arroccato nell’alto palazzo, quasi a voler apparire come il Re Nudo di Andersen, una frase colma d’odio, poche semplicissime parole, che pesarono sul mio animo mille volte più pesanti del masso di Sisifo.

“E’ finita la pacchia, tornano all’anagrafe mamma e papà.”

Il mio sogghigno irriverente, dinnanzi all’ignoranza, si congelò.

I boati scendevano dal cielo sempre più plumbeo con arroganza, sempre più grevi e pesanti.
Sarei dovuto tornare immediatamente verso casa, ma fermai la bicicletta a pochi passi da quelle parole arancioni, quelle lettere luminose che ferivano la semi oscurità del temporale ed il mio cuore stesso.


La pioggia giunse, ne arrivò proprio tanta, ma ero come incantato, immobile, distrutto da quel messaggio immondo.
Ero ormai completamente bagnato, mi sentivo triste, le braccia avevano perso ogni forza, e proprio in quell’istante, mentre la terra e tutti i suoi sette miliardi di abitanti girava a 1700 chilometri orari, mi sentii, solo, disperso, abbandonato da un paese che in fin dei conti era anche mio.


E’ facile credere che in Italia sia facile essere gay.
Ognuno proclama tolleranza e comprensione su ogni palcoscenico, da ogni postribolo, ma nella maliziosità di piccoli gesti e in cuor suo odia, odia ogni forma di diversità, ogni forma di amore.


Vorrei spiegare a chi la chiama “pacchia” (facendo eco, come una gallina di una certa età, a governanti lontani, considerati più che politici amori fugaci d’una domenica d’agosto in una colonia giovanile) quello che vuol dire essere gay oggi.

Comincia così, una mattina ti svegli, e credi che sarà tutto normale, che sarà come tutti gli altri giorni, abbastanza scontati.
Ed invece no, cominci ad accorgerti che quella normalità alla quale ti sei affidato per tanto tempo, non è la tua vita. Ti senti piccolo, stretto, e pensi.

Pensi sul pullman che ti porta a scuola, pensi durante un infinito compito di fisica, pensi durante la cena, pensi sperando di prendere sonno la notte.


Ti senti solo, e cerchi di plasmare una maschera che ti nasconda, anche se sai che non durerà per molto.

Ogni giorno, un pezzo di quella tua finta vita si sgretola, si stacca e lascia intravedere il tuo vero volto.
Neghi a te stesso, neghi a tua madre, a tuo padre, agli amici, che sospettino di te o meno.

Eppure questo continuo mascherare, ti fa male, ti graffia quell’anima tanto ribelle, tanto bella in quelli che dovrebbero essere gli anni più spensierati della tua vita.

Invece, più quelle mattine passano, più quei giorni passano e più diventa forte quella convinzione di essere sbagliato.

Lo chiamano stress di minoranza
. 
Si da un nome ad ogni cosa, ad ogni categoria, ad ogni fantomatica teoria, dimenticandosi, però, che dietro a quelle infinite etichette, si celano essere umani, persone, con una loro coscienza, una loro anima, una loro sensibilità.

Fino a quando, una tiepida giornata di primavera, ormai allo stremo delle forze, ti trascini in salotto, con l’animo di chi ha ucciso milioni di persone, ed a capo abbassato ne parli a tua madre, a tuo padre.

Non lo prepari con calma, quel giorno arriva, così nell’esasperazione di piccole grandi bugie velate, di fughe silenziose.

Senti che li stai deludendo, ed hai paura, paura di aver rotto qualcosa in quell’equilibrio perfetto che probabilmente non si riparerà più.

Con il senno di poi capire i loro timori, le loro angosce, e realizzare il loro realistico terrore del mondo, per quanto cattivo possa schiacciarti.


Ma in quegli istanti non capisci, o fingi di non capire, e ti aggrappi con ogni tua ultima forza a quel lenzuolo lanciato nel buio dell’anima.

Non tutti ce la fanno a sorreggersi, non tutti riescono a restare appesi a quella fragile e scivolosa speranza, non siamo tutti uguali, non siamo tutti forniti di anime in amianto.
E la notte cerchi di scacciare strani echi dalla testa, che cercano di annebbiare ogni razionale riflessione, e ti continui a sentire inadatto, sbagliato.

E cerchi scorciatoie tra le stelle che intravedi da un pertugio della finestra. E speri di non seguirle mai.

Cinque secondi separano il terzo piano di un palazzo dal terreno; ci sono voluti cinque secondi al corpo di un ragazzo gay, discriminato, deriso, odiato, a Roma, per essere strappato alla vita, e terminare esanime sul marciapiede fronte casa.


Quanto veloce può essere invece un treno, aspettarlo, guardarlo arrivare a folle velocità in lontananza, sempre più grande, fregandosene delle regole della prospettiva, sentirne il possente rumore sulle vecchie rotaie, quel rumore che assordava i pensieri di un altro diciannovenne, per poi sparire tra le ferraglie arrugginite, tra le ingombranti e pesanti ruote veloci, di lui non restava che il sangue, il sangue ovunque.


E nonostante tutto continuerete a chiamarci Froci, Faggot, Nancy Boy, e ci diranno che si sono fatti molti passai avanti, ora ci si può quasi sposare. Ma quanto vale un si civile davanti alle botte dei bulli, alla medioevalistica omofobia, alla paura di vivere dei vostri figli.
Quanto vale veramente quel pezzo di carta sin quando sputeranno a due ragazzi o due ragazze che si tengono per mano, o ci pesteranno in un vicolo, al buio, di notte; sì, in quella notte che riuscirà a nascondere, per un attimo, quell’amore che dobbiamo nascondere.


E l’amore, perchè è ancora così amici, siamo costretti a nascondere l’amore.

Le nostre mani sono e saranno sui corpi di quei ragazzi, di quelle ragazze (sia maggiorenni che minorenni) fino a che, invece di campagne a colpi di cartelloni luminosi o sportelli anti amore, attiveremo azioni contro il bullismo e contro tutte le forme di discriminazione.


Prevalle, prevallesi non chinatevi dinnanzi alla ferocia di parole lontane dalla gente, sappiate che nessuno vuole, ne vorrà mai privarvi dei termini mamma e papà, solo si vuole riconoscere l’amore all’interno di ogni tipo di famiglia.

Abbiamo a disposizione un enorme tela bianca alla nostra nascita, sarebbe alquanto stupido colorarla con dei colori che altri ci impongono.

Usate ogni sfumatura del vostro Io
, l’arcobaleno per quanto stupendo, non è mai uguale. 

Siate quel che vi sentite di essere, senza timore, senza gelosia, senza odio.


So che probabilmente questa mia lettera risulterà inutile e che spiegare questo grosso problema ad alcuni dei nostri burocrati, sarà come spiegare il senso della vita ad un ornitorinco in andropausa con la prostata ingrossata, ma è necessario, ci tengo troppo per far finta di nulla anche questa volta, poiché tutto questo non è altro che un filo sottile che tiene in equilibrio le infinite sfumature dell’amore, quel minuscolo nastro che molte volte da la vita, ma che in molte altre la toglie.

Con Affetto
Alberto Saponi
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Grazie Alberto per la sua preziosa testimonianza, sono dell'idea che non bisognerebbe mai parlare della pacchia degli altri, peggio ancora se viene additata come una colpa.
Ma definire, semmai che ci si riesce, la propia pacchia.
Sarebbe un mondo migliore.
Ubaldo Vallini

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