Di Francesco
di Luca Rota

Se nasci zemaniano difficilmente morirai trapattoniano. L’integralismo, calcistico e non, è cosa da evitare, soprattutto nel calcio moderno. Bisogna sempre essere disposti a mettersi in gioco e, se necessario, cambiare. Altra cosa è, invece, ripudiare il proprio credo calcistico


Oggi tutti celebrano la vittoria di un gruppo che ha saputo gettare il cuore oltre l’ostacolo. Tutti a festeggiare il 3 a 0 col quale la Roma ha eliminato il Barcellona nel ritorno dei quarti di Champions League. Pochi però celebrano il vero artefice di questo traguardo: Eusebio Di Francesco.
 
Da inizio stagione ad oggi, dopo un’estate fatta di pochi e mirati acquisti, alcuni dei quali praticamente inutilizzati (Karsdrop e Moreno), la Roma ha fatto più di quanto ci si potesse attendere. Raggiunta la semifinale di Coppa Italia (eliminata dalla Lazio), raggiunta la semifinale di Champions, e per il momento terzo posto in campionato, in coabitazione coi cugini laziali.
 
Niente male per uno che era partito con gli sfavori della critica, giudicato provinciale, inadatto e che già ad ottobre lo si vedeva lontano dalla panchina giallorossa. Uno che il 4-3-3 se lo porta dietro dai tempi di Pescara, ma che se deve cambiare lo fa senza problemi, con intelligenza e sagacia tattica. Perché non sono i moduli a vincere le partite, quelli sono soltanto numeri: è l’atteggiamento in campo a farla da padrone.
 
Il 3-5-2 presentato all’Olimpico l’altra sera ha di fatto surclassato un Barça incapace di opporsi al pacchetto completo messo in campo da Di Francesco. Pressing alto, ripartenze veloci, verticalizzazioni repentine e ritmi sostenuti per tutto l’arco dell’incontro. Mentre lui, il mister, in panchina che continuava ad invitare alla calma, persino dopo l’epico colpo di testa di Manolas che di fatto gli consegnava la semifinale e la storia. Bravi anche i suoi calciatori a seguirlo e a mettere in atto ciò che lui chiedeva.
 
Uno che del gioco offensivo ha fatto il suo marchio di fabbrica, ma che a differenza del maestro Zeman, non cerca il recupero in modo asfissiante ed ossessivo. Spesso bisogna anche saper attendere. Cosa che ha dimostrato nella sfortunata ma pur bella gara di andata, dove per quasi un’ora, la Roma ha tenuto testa ai blaugrana, rischiando più volte di segnare (aggiungiamoci i rigori non dati).
 
Offensivo, ma estremamente attento all’aspetto tattico. Questo è Di Framcesco, uno che di gavetta ne ha fatta abbastanza, e che adesso sta dimostrando di valere quel salto di livello che dalla sua Pescara lo aveva portato a Sassuolo, e che dall’Emilia l’ha ricondotto a Roma. Lì dove da calciatore vestiva l’11 e si dannava l’anima correndo e tirando in porta; lì dove adesso, seduto in panchina, ha condotto i suoi ragazzi alle semifinali di Champions League. 
 
Non male per un “provinciale”, “inadatto”, che già ad ottobre veniva dato per spacciato.     
 
 
 
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