Commozione ai campi di sterminio polacchi
di Luca Cortini

La visita ai campi di sterminio polacchi, organizzata dall'Amministrazione comunale di Gavardo, ha assunto un carattere ufficiale con una breve cerimonia a ricordo delle vittime della Shoah. Ad accompagnare i ragazzi il sindaco e due assessori.

Visti i risultati, il «Viaggio nella memoria» organizzato dal Comune di Gavardo lo scorso fine settimana (22-24 febbraio) sarebbe un'iniziativa da ripetere a cadenza annuale. I tre giorni in terra polacca, che avevano come punto di riferimento Cracovia, ma come obiettivo la visita al campo di sterminio di Auschwitz, sono stati un momento sicuramente indimenticabile per i 22 partecipanti, per metà giovani poco più che ventenni, o anche meno. Il degno coronamento dei «Giorni della memoria» quindi, il culmine del percorso allestito dall'amministrazione civica per ricordare le atrocità del secondo conflitto mondiale e della Shoah.

La trasferta ha assunto i contorni delle visita ufficiale durante le ore trascorse sabato all'interno del campo di sterminio. All'ingresso il sindaco Gian Battista Tonni, accompagnato dagli assessori Aldo Micheli e Marco Piccoli (ideatore dell'iniziativa, nonché preciso organizzatore e perfetto capogruppo) ha indossato la fascia tricolore, per poi lasciarsi condurre come tutti gli altri in mezzo ai caseggiati di Auschwitz I, il nucleo originario della struttura, a cui si aggiunse successivamente l'enorme complesso di Auschwitz II-Birkenau. A dirigere con straordinaria efficacia i visitatori italiani c'era una guida con un passato particolare: il padre fu prigioniero dei nazisti proprio fra quelle mura. Ecco che le spiegazioni diventano allora un contributo eccezionale a delle immagini già di per sé devastanti per l'animo dei presenti, che in silenzio assoluto attraversano le stanze contenenti gli oggetti degli internati: cumuli di occhiali e scarpe ad esempio, ma anche stampelle e protesi, fino ad arrivare alla sala dove sono raccolte le ciocche di capelli tagliate ai deportati, rimaste lì dopo la fuga dei nazisti davanti all'avanzata sovietica. Lungo le pareti i primi piani di qualche centinaio di vittime: volti diversi, espressioni diverse, occhi diversi, ma un solo e tragico destino in comune.

Si passa poi al muro delle fucilazioni. Per terra candele e fiori, a cui va ad aggiungersi il mazzo depositato dai due più giovani del gruppo insieme al sindaco. Ci si ferma un attimo per fissare nella memoria quella sensazione fortissima, poi si scende verso le celle sotterranee, perché ad Auschwitz c'era anche una piccola prigione, come se non fosse già sufficiente la tortura della vita quotidiana nel campo. Ci si muove a fatica, gli spazi sono a dir poco angusti e scarsamente illuminati: le condizioni ideali per far morire di fame e di sete persone già più che debilitate da turni di lavoro massacranti, malattie, freddo e continue vessazioni.

Ma la «soluzione finale» nazista prevedeva di peggio: il carcere è quasi nulla in confronto alle camere della morte verso cui ci si sta dirigendo. Prima però una deviazione nello stabile dedicato agli italiani, per lasciare un piccolo gonfalone di Gavardo. Un segno, certo non paragonabile ai graffi che la visita traccia dentro l'anima. Adesso tocca alla sala delle docce, dove il cianuro mieteva le vittime designate dai nazisti. Pochi passi più in là ecco i forni crematori. Ci si sente spaesati nel pensare che per anni chiunque fosse entrato lì dentro ne sarebbe uscito cenere, proprio lì, dove si sta fermi deglutendo per cercare di sciogliere il nodo in gola. C'è ancora spazio per una breve tappa a Birkenau, ma il tempo è tiranno e forse per qualcuno è meglio così: il terremoto interiore c'è già stato, intensissimo.

Il resto del fine settimana si divide fra il centro storico di Cracovia, ciò che resta del quartiere ebraico e le miniere di sale di Wieliczka, ma la mente corre sempre là, in quella pianura a settanta chilometri dalla città, a quell'emblema supremo della capacità distruttiva dell'uomo.

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