Intervista a Enrico de Angelis - prima parte
di Alfredo Cadenelli

Pubblichiamo in due parti un'interessante conversazione tra i ragazzi del Graffio ed Enrico de Angelis, direttore artistico del Premio Tenco, incontrato a Verona in occasione della mostra “Fernanda Pivano e la Beat Generation”.

Per i più attenti lettori del giornale vobarnese “Il Graffio”, il nome di Enrico de Angelis non rimarrà un’ignota ed altisonante identità anagrafica (…non cercate sulla Treccani, credo non ce l’abbiano ancora inserito!).
Sul quarto numero del nostro periodico, infatti, è possibile leggere una lunga intervista al suddetto personaggio, importante giornalista e critico musicale (il termine “canzone d’autore”, tanto per farvi un’idea, l’ha inventato lui!) nonché direttore artistico del Premio Tenco, una fra le più importanti rassegne musicali italiane, che ha visto tra i suoi ospiti artisti del calibro di Fabrizio De André, Paolo Conte, Francesco Guccini, Roberto Vecchioni, Vinicio Capossela, Nick Cave, Tom Waits, Patti Smith…
Abbiamo incontrato nuovamente Enrico a Verona, nel contesto di un’interessante mostra dedicata a “Fernanda Pivano e la Beat Generation”, ospitata nei locali della Biblioteca Civica della città scaligera (potete trovare un articolo dedicato all’esposizione nell’archivio on-line di Valle Sabbia news, cercando “beat generation” o “Fernanda Pivano”).
In mostra fotografie scattate da Ettore Sottsass a partire dal 1948, che ritraggono la celebre traduttrice, saggista e scrittrice italiana Fernanda Pivano insieme ad alcuni fra gli artisti che ha conosciuto ed amato durante la sua vita a dir poco singolare, dagli amici beat Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Lawrence Ferlinghetti, William Burroughs e Gregory Corso, ad altri mostri sacri dell’arte del Novecento quali Ernest Hemingway, Bob Dylan, Giuseppe Ungaretti, Ezra Pound …

Nel contesto dell’esposizione sono state organizzate alcune iniziative collaterali, quali la lettura musicata di alcune poesie beat, video proiezioni e dibattiti, tra cui una conferenza tenuta da Enrico de Angelis, dedicata all'album “Non al denaro non all’amore né al cielo” di Fabrizio De André, una rilettura in chiave musicale dell’“Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters realizzata patendo dalla traduzione italiana dell’opera curata da una giovanissima Fernanda Pivano.
Il lavoro dell’artista genovese, datato 1971, è uno straordinario esempio di “poesia al cubo”, dove i versi originali di Masters sono svecchiati ed attualizzati dalla traduzione della Pivano prima e dal sapiente lavoro di riscrittura in forma di canzoni di De André poi, il quale si avvalse anche dell’ausilio del poeta anarchico genovese Giuseppe Bentivoglio nella stesura dei testi e della consulenza musicale di un giovane Nicola Piovani per la scrittura di musiche e arrangiamenti.

Masters e De André: due autori distanti sia geograficamente (casualmente statunitense il primo, orgogliosamente genovese il secondo) che cronologicamente (Masters muore nel 1950, solo dieci anni dopo la nascita di De André), certamente non ascrivibili al movimento della beat generation, cui la mostra scaligera è dedicata.
Chiediamo ad Enrico de Angelis in cosa secondo lui la poetica di Fabrizio De André possa essere riconducibile alle tematiche e allo spirito delle grandi opere beat.
“Credo non ci sia un collegamento diretto tra De André e la beat generation” ci dice Enrico, con il tono pacato e cordiale che lo contraddistingue “Sicuramente c’è qualcosa che lega le due cose, e sta nel pacifismo, nell’antimilitarismo e in un certo spirito anarchico. Proprio l’“Antologia di Spoon River” di Masters ha fatto da trait d’union tra questi due mondi: non è certamente un’opera beat, ma la versione che ne fece Fernanda Pivano e di cui si servì Fabrizio per realizzare il suo lavoro ha costituito sicuramente un importante punto di contatto, sul terreno del pacifismo, dell’anti-militarismo e dell’anarchia in senso lato: tutte tematiche che De André, rispetto a Masters, tratta in maniera più precisa ed esplicita, usando parole anche forti”.

Tornano alla mente i versi de “La Collina”, brano di apertura dell’album, in cui De André canta di “generali…con cimiteri di croci sul petto”, di “figli della guerra” che tornano a casa esanimi, le “spoglie nelle bandiere/legate strette perché sembrassero intere”.
Ma nell’album c’è molto di più che un generico rifiuto della guerra e degli orrori che essa inevitabilmente porta con sé: c’è l’invidia “molla del potere esercitata sugli individui e come ignoranza nei confronti degli altri”, la scienza “come contrasto tra l’aspirazione del ricercatore e la repressione del sistema”, “prodotto del progresso…ancora nelle mani di quel potere che crea l’invidia”.
C’è il rancore di un giudice dileggiato per la sua bassa statura che si vendica condannando a morte un imputato, un matto che non riesce ad esprimere a parole il mondo che si porta dentro, un blasfemo ucciso a causa delle sue affermazioni in merito agli esseri umani e al loro rapporto con il divino, un malato di cuore, un ottico, un medico, un chimico, fino al ritratto forse più autobiografico, che De André stesso identifica -unico caso fra i personaggi dell’album- con l’articolo determinativo: “Il suonatore Jones”.
A lui sono affidati gli straordinari versi dell’ultimo brano: “Libertà l’ho vista dormire/nei campi coltivati/a cielo e denaro/a cielo ed amore/protetta da un filo spinato./Libertà l’ho vista svegliarsi/ogni volta che ho suonato…”

Continua.
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