La noce, una coltivazione d'altri tempi
di Beppe Biati

E' arrivato, non inaspettato ma puntuale, il colorato autunno. Con lui giungono i frutti dell’intera annata, quelli succosi e saporiti.
Di Giuseppe Biati



Particolare risalto, per tradizione e cultura in Valle Sabbia, hanno le noci, anche se oggi giungono, sulle nostre tavole di figli di vecchi contadini ormai “smallate” e sbiancate dal cloro. 
Hanno persino smarrito il colore nicotinoso e  tradizionalmente indelebile al grezzo pezzo di grasso sapone fatto in casa coi resti del meno nobile degli animali: il maiale.

Vengono dalla Campania, dal Veneto, dall’Argentina
, dalla Francia di Grenoble e da chissà quale altra parte del mondo, dove l’agricoltura meccanizzata riesce a reggere le sorti di ormai poche schiere di addetti. 
Il guscio è tenero e fragile, quasi a misura della poca forza da imprimere con le dita per il secco crepitìo del ligneo involucro che si infrange.
I solai non sono più idonei essicatoi.  
Non ci sono più neanche i solai per le  abbondanti conservazioni di frutti montani, come appunto noci e castagne. 

Nella antica Valle Sabbia, il raccolto delle noci è sempre stato talmente abbondante che il contadino poteva venderne una parte e, in questo modo, disporre di un po’ di denaro contante. 
Con i gherigli delle noci rimaste faceva l’olio per sé: un olio adatto a condire, a conservare i mobili, ma anche ad alimentare i lumini; e il sottoprodotto della  spremitura lo dava in pasto alle bestie, mentre il legno dei  gusci frantumati e secchi era riservato alla celere accensione mattutina del  fuoco.
Nulla, presso i contadini, andava perduto.

A quel tempo si teneva in grande considerazione anche il legname di noce. 
Ricordo che mio padre, per far ingrossare prima del tempo la pianta, operava un taglio verticale della corteccia lungo tutto il tronco. La corteccia così tagliata – a suo dire – avrebbe agevolato l’ingrossamento  del fusto. 

“Meglio nessun mobile che un mobile di abete”, recitava un vecchio adagio, per dire che il re dei legni era il noce.
Con il legno del noce si facevano credenze, tavoli, sedie, cassapanche, letti e guardaroba. 
Chi possedeva tanti noceti aveva sicura ricchezza o per ingrandire la casa o per maritare una figlia. 
Raccontano che i giovanotti più furbi in cerca di dote tenessero d’occhio le mani delle ragazze, scegliendo la sposa tra quelle che le mani le avevano ingiallite dal color del mallo.

Suggestiva era l’abbacchiatura delle noci. 
Si saliva sulle piante e con una lunga, uniforme pertica si battevano le noci che venivano raccolte in appositi cesti di vimini. 
E, dopo la raccolta, l’essicatura sui solai e la cernita, perché le migliori venivano vendute ai negozianti e le piccole pronte per l’artigianale spremitura per ricavarne olio.

Le noci sul solaio venivano settimanalmente girate e rigirate con un apposito rastrello e il rumore era tale da sembrare al fragore del tuono. Così, quando durante i temporali “tuonava”, si diceva ai bambini impauriti di non temere che era il Signore, in cielo, che rigirava le noci.

Pochissimi, però e per ovvie ragioni, erano i mulini per la produzione dell’olio di noce e, per lo più, rudimentali.
Vi era una grande mola di pietra che, ruotando nella sede circolare del fondo di ferro perfettamente levigato e rialzato ai bordi, “macinava” i gherigli di noce.
La pasta ottenuta veniva, quindi, raccolta attraverso un’apertura sul fondo e poi riscaldata, rimestandola accuratamente, in un paiolo di rame a una temperatura che poteva variare dai 30-40° ai 70° C: più alta era la temperatura più forte riusciva il sapore dell’olio e più ambrato il suo colore; ma, d’altra parte, un eccessivo riscaldamento lo faceva diventare amaro e, soprattutto, vanificava molte sue proprietà nutrizionali ed organolettiche. 
Questa era una fase molto critica, affidata alla perizia e all’esperienza del  “mugnaio dell’olio”, che valutava la giusta temperatura con la sensibilità della mano e in base alla colorazione assunta dalla pasta. La pasta riscaldata veniva poi versata in una pressa munita di filtri di crine di cavallo.
La fuoruscita dell’olio concludeva l’operazione.
Così si svolgeva un antico rito, ormai completamente perso.

Detti e proverbi riferiti alle noci sono molteplici, proprio perché  alimenti diffusi sulle mense contadine.
Nella migliore tradizione della saggezza popolare, mangiare pane e noci era pranzo da sposi (“Pà e nùs, mangià da spùs”).  
Ma andando alla realtà dei fatti, ci sono stati tempi in cui noci e pane erano forse l’unico cibo quotidiano del contadino povero.
Chi pianta noce non mangia noci” era un proverbio d’altri tempi che non regge, oggi, con le moderne coltivazioni, attivabili e portate a ricca produzione in pochissimi anni.

Chi ingaggiava  una lotta con qualcuno più potente di lui, si diceva che volesse “mangiare le noci col mallo”.
Non portava bene, invece, anche secondo le usanze dei villaggi prealpini, dormire sotto la fredda ombra del noce; ma il far essiccare le foglie e farne un materasso su cui dormire levava da dosso i dolori reumatici. 

Le epoche della maturazione delle noci erano scandite dai santi del lunario: così, per S. Maddalena (22 luglio) la noce era già piena, per S. Lorenzo (10 agosto) potevi guardarci dentro, per S. Croce (14 settembre) una pertica per  noce: infatti era arrivato il tempo di battere le noci e di raccoglierle.

Ma, nel contempo, era giunto l’autunno!
 
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