La fotografa dei mostri
di Vittoria Pasini

Diane Arbus, col suo allontanarsi da ogni schema convenzionale, ha rappresentato un momento di profondo cambiamento sia nei codici linguistici della fotografia che nella percezione comune della realtà


“I fenomeni da baraccone possiedono un’aurea leggendaria. Come il personaggio di una favola che ti ferma e ti pone un indovinello. Molte persone vivono nel timore che gli possa capitare un’esperienza drammatica. I fenomeni da baraccone sono nati nel loro trauma. Hanno già superato la loro prova nella vita. Sono degli aristocratici”
Diane Arbus

Concentrata nell’arco di soli undici anni, dalla prima pubblicazione su Esquire nel 1960 fino alla data della sua morte avvenuta nel 1971, si dice che la parabola artistica di Diane Arbus abbia avuto le stigmate del “proibito”, nonché del male, che l’avrebbero infine portata al suicidio. 
Giustificare però un’ampia produzione d’immagini, legate a personaggi e situazioni problematiche per il sentire comune, come quella di Arbus, alla depressione che per molta parte della sua vita l’ha afflitta, è più che riduttivo, poiché l’opera di quest’artista, col suo allontanarsi da ogni schema convenzionale, ha rappresentato un momento di profondo cambiamento sia nei codici linguistici della fotografia che nella percezione comune della realtà.

Adoro quest’artista e adoro la scelta dei suoi soggetti, per i quali poi diventerà famosa, cioè quel tipo umano che per caratteristiche fisiche e sociali non rientra in quella che noi consideriamo normalità: nudisti, nani, giganti, prostitute. Proprio per questo le sarà dato l’appellativo di “fotografa dei mostri”.
Così facendo, s’inserirà in una ben precisa tendenza del periodo a reagire contro le rassicuranti e noiose convenzioni borghesi.

Arbus sceglie, però, con l’evidenza fotografica di orrori (dai quali il privilegio sociale l’ha protetta) di schierarsi più apertamente contro ogni moralismo. Ciò le varrà un costante disprezzo da parte dei benpensanti, che sputeranno letteralmente sulle sue opere esposte per la prima volta nel 1965 al Museum of Modern Art di New York; ma anche un continuo appoggio ed incoraggiamento da parte dei suoi amici fotografi ed intellettuali.

Il suo modo di lavorare era molto lento, proprio perchè cercava di individuare la solitudine del soggetto in totale collaborazione ed empatia con lui, fino ad instaurare un legame di reciproca fiducia.
Le fotografie di Diane, rigorosamente in bianco e nero, trasmettono un forte e pungente realismo e sono nello stesso tempo piene di vita, togliendo l’artificio e facendo emergere il livello psicologico dei suoi soggetti freaks, facendoli quasi balzare fuori dalla scena, con l’uso molto frequente del primo piano.

Catturava bizzarri tipi di persone a Central Park
(uno dei suoi luoghi preferiti per scovare i suoi soggetti) e si recava spesso al Museo di Mostri Hubert, dove queste persone si esibivano: andava dietro le quinte per fotografarli, fino a diventare di famiglia e ad essere una piacevole ospite nelle loro case.
Le forti crisi depressive e l’epatite la spingono a togliersi la vita nel 1971, forse troppo immedesimata nella sofferenza dei suoi soggetti.
L’anno dopo il Moma di New York le dedica una retrospettiva e sarà la prima tra i fotografi americani ad essere esposta alla Biennale di Venezia.

Per chi, come me, ama la diversità ma soprattutto ha pelo sullo stomaco, è interessante il film semi-biografico sulla vita dell’artista, “Fur-Un ritratto immaginario di Diane Arbus”, uscito nel 2006 ed interpretato da Nicole Kidman.


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