Su Spinoza o dell'inutilità del pensiero
di Nicola Zanoni

Questo articolo nasce dall'incontro su Spinoza tenuto dal prof. Luciano Pace nell'ambito della 'Scuola di Filosofia' promossa dall'ufficio scuola della Diocesi di Brescia


Corso che si tiene presso la biblioteca di Odolo ogni secondo martedì del mese.
Questa sera, alle 20.30, si terrà la lezione su Leibniz.

Nell'ottobre del 1632, a Delft, in Olanda, Ian Veermer vide la luce. Letteralmente. Vermeer ne fu il cantore, l'aedo, l'amante.
Caravaggio, suo precursore, ancora vede oggetti illuminati, sottratti alla tenebra. Caravaggio cioè ancor vede l'opera di Dio che separa (si pensi alle sue decollazioni!), con gesto fatale e violento: “la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta” (Gv 1, 5).
Vermeer non oggetti, ma luce dipinge. Non cose visibili, ma la visibilità stessa. Ciò che, non potendo essere direttamente guardato, consente che altro si guardi, si faccia guardare. Pizzi, merletti, aghi, brocche e broccati, bicchieri, facciate di case sono soltanto un pretesto.

Un mese dopo – novembre 1632 – la comunità ebraica di Amsterdam salutava un nuovo profeta.
Baruch Spinoza nasceva in una famiglia di ebrei marrani, esuli dal Portogallo, stanziatisi in luoghi meno attenti a certe questioni. Eppure, anche la pacifica, protestante Olanda avrebbe di lì a poco rinnegato come empie le troppo ardite tesi del malinconico (così lo descrivono le biografie dell'epoca) autore dell'Ethica, condannandolo (quasi) allo stesso destino di Socrate. Perché?

“Bruma dorata, l’Occidente saluta
Alla finestra. L’assiduo manoscritto
Aspetta, già intriso d’infinito.
Qualcuno pensa a Dio nella penombra
Un uomo genera Dio. E’ un giudeo
Dagli occhi tristi, pelle color d’oliva;
Lo porta il tempo come porta il fiume
Una foglia nell’acqua che va via.
Non importa. Il mago insiste e intaglia
Dio con geometrica purezza;
Dalla sua malattia, dal suo niente,
Con la parola intende a costruire a Dio,
Il più prodigo amore gli fu concesso
Amor che non chiede essere amato”:

così Borges celebra, nel 1976, Spinoza.
Che, rinnegato da tutti, per sopravvivere faceva l'intagliatore di lenti. E, per vivere, l'intagliatore di Dio.
Questo fu il suo peccato – almeno, agl'occhi degli uomini.
Le stesse lenti attraverso cui Galileo scopriva le macchie lunari e i satelliti di Giove, le stesse lenti che dalla camera oscura di Caravaggio e Vermeer avrebbero portato alla moderna macchina fotografica – ecco, quelle lenti, tra le mani di Spinoza ora servivano a guardare Dio 'faccia a faccia' ora, qui, sulla terra. E a scoprire che il microscopio è in realtà uno specchio.

Il Dio plasmato dall'arte dell'abile, eretico vetraio, non era infatti più l'ente trascendente, creatore, distinto dal mondo, giudice severo e padre misericordioso dei tre grandi monoteismi abramitici, ma diventava un tutt'uno con il cosmo – “Deus sive Natura” è il famoso motto – scolpito definitivamente nella parola dell'Essere.
Sì perché Spinoza ci dice che solo Dio è, poiché solo in lui – questa la formula esatta con cui intrappolarlo – l'essenza coincide con l'esistenza. In altre, più semplici parole: cercando sul dizionario, solo alla voce 'Dio' troveremmo la (già biblica) definizione: 'Colui che è'; per tutto il resto (l'uomo, il mare, le stelle...) troveremmo che 'è questo', 'è quest'altro'. Dunque, solo Dio è per definizione. Dunque, è.

Da qui non è difficile (di)mostrare come, data tale definizione di Dio, questi debba coincidere con il mondo e con tutto quanto in esso accada, in una estrema forma di panteismo (o, per i palati più raffinati, 'panenteismo') dal sapore fortemente orientale.
Tutto è in Dio e tutto è manifestazione (finita) di Dio (infinito): dalla feroce lotta delle belve in amore allo sbocciare di un fiore, dal dolore materno del travaglio all'esplosione di galassie ignote, dal più profondo, segreto amplesso nel cuore della notte allo scintillio baluginante del pensiero. Il quale ormai si fa tutt'uno con le cose che pensa, essendo tanto quelle quanto questo attributi, espressioni di quel Dio che soltanto 'è'.

Come la luce nei quadri di Vermeer, cioè, il Dio di Spinoza illumina il Mondo, riflettendosi, inabissandosi in esso – fino a smarrirvisi, per riemergerne, indistinto da questo.
Accade a loro come agli amanti di Neruda, dei quali l'uno (ma non è ammesso siano due!) dice all'altro – e quindi a se stesso:
“così ti amo perchè non so amare altrimenti che così,
in questo modo in cui non sono e non sei,
così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno”.

.in foto: The Little Street di Johannes Vermeer

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