Il silenzio dei colpevoli
di Nicola 'nimi' Cargnoni

Dove sono le nostre istituzioni? Dove sono i comunicati stampa dei comuni che si dissociano dall’(ab)uso che la Regione Lombardia ha fatto del proprio palazzo, sede dell’amministrazione, simbolo di Milano e di tutto ciò che rappresenta?


Già, perché il Pirellone te lo ritrovi lì davanti, come il magnifico monolite di «2001: Odissea nello spazio», ad accogliere chi arriva a Milano, turisti, lavoratori, immigrati, gente in cerca di fortuna e di riscatto.

Un palazzo che negli anni è divenuto simbolo del dinamismo e dell’emancipazione che a Milano e in Lombardia, più che in ogni altra regione d’Italia, abbiamo raggiunto grazie al privilegio di essere un popolo culturalmente ed economicamente ricco, grazie al sacrificio, grazie alla cultura del lavoro e dell’accoglienza, grazie anche a quell’integrazione che, col tempo, abbiamo fatto in modo che si raggiungesse con chi veniva dal Sud o da fuori.

Dove è finita la voglia di essere migliori? Abbiamo lottato per la democrazia, per le donne, per il diritto al voto, per cambiare i governi, per la pace in Vietnam, per qualsiasi cosa ritenessimo doveroso muoverci.
È davvero possibile che le scelte individuali e personalissime, come la decisione di come passare il tempo sotto alle lenzuola, possa essere motivo di scherno, di emarginazione e di indifferenza?
È davvero possibile che l’essere gay, lesbiche o trans debba essere una discriminante per la quale si è preclusi dal godere dei diritti di cui dovrebbe godere qualsiasi cittadino che paga le tasse ed è dotato della capacità di agire?

Tra l’altro questi pregiudizi hanno portato all’esasperazione una situazione che si sarebbe potuta risolvere con maggiore informazione e attenzione.
Sarebbe bastato documentarsi, leggere la proposta di legge della Cirinnà.
In questi giorni sta circolando una bellissima vignetta che spiega la Stepchild adoption usando la Sacra famiglia: in sostanza è un procedimento che permette a Giuseppe di poter adottare il figlio (Gesù) del coniuge (Maria) col permesso del padre biologico (Dio).
Blasfemia? No, pura e semplice esemplificazione del linguaggio, che cerca di far capire a bigotti e conservatori un meccanismo usando gli stessi esempi che questi usano per parlare di Famiglia Tradizionale.

La cosiddetta Famiglia tradizionale, della quale nessuno riesce a dare una definizione esaustiva. Le madri single? I padri vedovi? Le famiglie allargate dove i figli vengono sballottati tra padre, madre e relativi nuovi compagni? Le beghe tra fratelli? Gli orfani che nel dopoguerra crescevano con le zie e i cugini?
Potremmo andare avanti all’infinito chiedendoci per quale motivo ci siano al mondo tante bravissime persone che sono cresciute in famiglie affatto tradizionali. E chi scrive viene da una famiglia “che più tradizionale non si può”.

Evidentemente è ancora troppo forte il pregiudizio nei confronti di chi sceglie come partner una persona del proprio sesso; perché altrimenti non ci si attaccherebbe ad argomentazioni ridicole come l’insostenibilità delle pensioni di reversibilità; in tal caso occorrerebbe privare della capacità di agire tutti quei nonnetti che si sposano con le badanti di trent’anni più giovani.
Oppure non si andrebbe a parare sulle assurdità riguardanti gli uteri in affitto (pratica per altro illegale in Italia, e che tale resta), quando gli orfanotrofi di tutto il mondo pullulano di bambini che vorrebbero crescere amati. Ma davvero c’è chi crede che a un bambino importi sapere il sesso di chi gli offre amore, protezione e cure?

In questi giorni sento spesso la domanda «perché lottare per i diritti degli altri?».

Perché i cittadini eterosessuali devono immischiarsi in faccende che non li riguardano? Per lo stesso motivo per cui abbiamo scelto di fare le lotte femministe, quelle democratiche, quelle sindacali, quelle per l’aborto e il divorzio.

In America i bianchi hanno lottato al fianco dei neri; nella Germania nazista alcuni tedeschi hanno offerto protezione agli ebrei.
Perché la sfera religiosa è e deve restare personale, fuori dalle logiche dello Stato e, comunque, relegata in secondo piano rispetto alla Legge.
Occorre lottare perché se oggi godiamo della libertà di poter vivere liberamente è grazie a chi ha lottato prima di noi. E spesso, a lottare, c’erano cittadini che avrebbero potuto farsi gli affari loro; ma questa comunanza di ideali, la voglia di migliorare come civiltà è proprio ciò che ci rende differenti da chi si fa saltare in aria in nome di un qualche presunto dio.

Eravamo Charlie, poi eravamo francesi.

In questi giorni ho letto e sentito cose atroci, scritte e dette da chi usa i social network con la bandiera francese.
Ma Voltaire vorrebbe rivoltarsi nella tomba, perché è evidente che la moda di appropriarsi degli ideali altrui non coincide con la comprensione di quegli ideali.
La Francia è la culla della libertà, è la Nazione (no, non lo Stato, ma la Nazione, intesa come insieme di popolo e cultura) che ha “inventato” l’Illuminismo e l’uguaglianza universale. Con che faccia si può essere solidali con gli ideali francesi se poi si è così ancorati a vecchi pregiudizi?

Come può la stessa amministrazione regionale illuminare il Pirellone con JE SUIS PARIS e due mesi dopo sostenere il FAMILY DAY?
Con che faccia si può essere così opportunisti, volgari e bugiardi?  Ve l’immaginate, voi, il prete che oggi legge il Vangelo e domani proietta un film a luci rosse in chiesa? Perché il paragone, per quanto forte, regge benissimo.
Ai parigini non interessa la solidarietà di Maroni e compagni, se questi si fanno poi portavoce e sostenitori di ideologie conservatrici, oscurantiste e legate alla logica di non andare contro a Comunione e Liberazione, che comunque è, e resta, una metastasi all’interno delle nostre istituzioni, con una nocività pari soltanto a quella delle mafie.

I valsabbini sono un grande popolo: sono lavoratori, solidali, tenaci, a loro modo generosi. Ma se c’è un difetto, purtroppo, è la poca voglia di aprirsi alle novità. Che non è necessariamente ignoranza, ma è più paura di ciò che potrebbe minare le basi di uno status quo raggiunto con secoli di fatica e di sacrifici.
La cosa più odiosa è il solito incipit con cui si formulano le frasi in questi casi: «Conosco tanti gay che sono brave persone, ma…», «Ho amici gay, ma…». Ma che cosa? Ci sono tante coppie tradizionali formate da pessime persone, genitori che nella loro irrinunciabile voglia di divertirsi stanno in giro fino a tarda notte con bambini di 6, 10, 12 anni. Famiglie allargate così ridicole dietro la loro ipocrita facciata di finto perbenismo, uomini che dopo aver vissuto da soli tutta la vita si sono messi con donne opportuniste. Ci sono donne perfettamente valsabbine che hanno sposato uomini molto più anziani per il solo scopo di trarne un beneficio economico. Queste sono le cosiddette “famiglie tradizionali” che vengono offerte come termine di paragone quando si parla di diritti civili?
Ci sono eterosessuali spacciatori, eterosessuali assassini ed eterosessuali che sono parassiti dello Stato, mentre ci sono omosessuali a cui personalmente darei le chiavi di casa senza esitazioni, a cui affiderei mio figlio, se l’avessi.

Ma in tutto questo le nostre istituzioni dove sono? Dove sono quelli che tre mesi fa giocavano a fare gli illuministi, dando dell’ignorante a chiunque (ab)usasse delle parole di Oriana Fallaci? Dove sono gli assessori e i consiglieri valsabbini che mettevano la bandiera francese sui social network? Si sono persi tra i selfie con Maroni e l’imbarazzante silenzio di questi giorni; si sono persi nella fredda, cinica e algida indifferenza nei confronti di quei cittadini valsabbini e lombardi che pagano la Tari, la Tasi ma che sono stati vilipesi e umiliati dalle istituzioni che invece dovrebbero rappresentare i loro diritti.

Si sono persi e non hanno speso una sola parola pubblica o privata, nemmeno sui loro profili Facebook. Dove sono? Cos’hanno da dire al riguardo? Fa davvero ancora così tanta paura levare una voce che possa essere contro i dettami del partito? Perché non avere il coraggio di distinguersi? Perché non essere protagonisti di uno slancio di civiltà? Perché esporre la bandiera del Tibet e poi ignorare i diritti dei nostri vicini di casa, dei nostri fratelli, dei nostri amici, dei nostri conoscenti?

La prossima volta che vado a Milano vorrei poter uscire dalla stazione e stare col naso all’insù come quelli che decenni fa arrivavano, con le loro valigie di cartone, con il loro carico di cultura retrograda e arretrata; arrivavano e scoprivano un mondo nuovo, una società dinamica, aperta, che col tempo ha saputo anche essere generosa e cordiale, che si è sempre dimostrata aperta alle novità.
La prossima volta che vado a Milano dovrò vivere il lancinante senso di colpa per l’appartenenza a una comunità chiusa, ostinata e cinica nei confronti di quelle conquiste civili di cui invece ci vantiamo quando vogliamo sostenere la nostra (presunta) superiorità sulla cultura islamica. Siamo emancipati e civili solo quando dobbiamo prendercela con lo straniero, però nei momenti decisivi viene fuori tutta la nostra grettezza.

Io vorrei poter vivere in una società capace ancora di vivere momenti di sacro furore e di slanci, una società capace di scendere in piazza con la consapevolezza che si lotta gli uni per gli altri. I gay e le lesbiche c’erano quando si manifestava per i diritti, per la pace e quando si piangevano i morti degli Anni di piombo.
C’erano, col rammarico di non poter palesarsi. C’erano, ma non potevano dire di esserci. Ma c’erano. Oggi tocca a noi esserci, perché è bugiardo chi dice che «ci sono problemi più gravi». No. Nessuna crisi economica, nessun flusso migratorio e nessun altro problema è più grave dell’impossibilità, per alcuni cittadini, di vedere realizzati in pieno i propri sacrosanti diritti.

Perché il Pirellone non sia un semplice monolite e perché noi non sembriamo davvero quelle scimmie violente e ottuse di «2001: Odissea nello spazio».

Nicola Nimi Cargnoni

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