L'ultimo baluardo della nostra coscienza
di EnneEmme

Tutti siamo rimasti scioccati dalla foto triste, dura e allo stesso tempo dolce del piccolo Aylan, bimbo-simbolo delle tragedie dei migranti che ha rotto il muro dell'indifferenza


E’ l’immagine di una delle ormai migliaia di vittime innocenti dell’esodo dalle zone di guerra e distruzione in Medio Oriente, verso questa Europa che pare salvezza ed è soprattutto prolungamento di angoscia.
Ne hanno discusso in tv, alla radio, sui giornali; ne abbiamo discusso fra di noi, in famiglia, fra amici, a tavola. La retorica esonda, il cinismo si insinua, lo scandalo prosegue. E anche le buone ragioni, il tentativo di riportare l’opinione pubblica e la pubblica gestione degli affari internazionali a un minimo di logica.

Sono le stesse immagini scattate fortunosamente da un Sonnerkommando ad Auschwitz, nell’agosto del 1944.
Sono le stesse immagini della realtà negata dai nazisti (e da alcuni negazionisti odierni), le immagini dell'eliminazione definitiva tramite cremazione dei corpi di vittime, eliminati nelle apposite strutture e poi fatte scomparire senza lasciare tracce né ricordi, come Goebbels desiderava.
Sono i tragici destini dei prigionieri della Kolyma durante le grandi purghe staliniane descritte mirabilmente da Salamov.

Così la negazione viene resa impossibile dalla testimonianza visiva dell’atto stesso della tragedia.
Perché l'immagine, malgrado tutto, rende vero ciò che non si può immaginare e che spesso viene nascosto, o che si tende a non raccontare.

Questo è il significato del bambino siriano di Kobane morto sulla spiaggia di Bodrum.
Quella immagine è necessaria perché con la sua forza narrativa rende ancora più vero ciò che sembra non vogliamo credere.

Ma attenzione, spesso pretendiamo troppo dalle immagini.
Vogliamo che ci raccontino tutta la verità, ma esse ci raccontano solo un pezzetto, un lembo di verità. Che ne è di tutti gli altri bambini, morti prima di poter sfuggire alle stragi delle guerre in Siria,  Eritrea, Sudan,  Repubblica Centrafricana (Seleka contro Anti-balaka), Afgahnistan? O degli altri, morti annegati o soffocati come il piccolo Aylan, nel terribile attraversamento del Mediterraneo?

Spesso invece pretendiamo da loro troppo poco.
Le consideriamo solo un simulacro, estromettendole dal campo storico e non comprendendone più la sostanza.

Cosa sta succedendo davvero nei paesi trafitti da lotte interne, da conflitti tra tribù rivali, attacchi terroristici, bande armate ideologizzate?
Qual è il prezzo concreto pagato dalle popolazioni di quei paesi? Quali conseguenze lasceranno sul terreno e per quanto tempo?

Per questo forse, malgrado la retorica emotiva che quella immagine suscita, essa è e sarà necessaria.
Perché ci costringe a ragionare, a porci delle domande e a prendere atto che, dietro alle parole che cercano di descrivere il fenomeno di un esodo che coinvolge centinaia di migliaia di persone, ci sono vite, famiglie, destini, sentimenti, piccole realtà quotidiane identiche alle nostre. 

Abbiamo perso la capacità d'immaginare, d'immedesimarci nella sofferenza del prossimo, e abbiamo bisogno di "sbattere il naso" contro un'immagine.
Piuttosto triste constatare che una fotografia sia l'ultimo baluardo della nostra coscienza, la parte più potente della nostra comunicazione.

Di fatto ci costringe a immaginare cosa sarebbe di noi europei, che da settant’anni viviamo tutto sommato nel benessere, tenendoci lontani da ogni conflitto, se ci trovassimo a vivere quelle esperienze.
E cosa penseremmo se sapessimo che sull’altra sponda del Mediterraneo, verso cui cerchiamo disperatamente di trovare salvezza e rifarci una "nuova vita", ci considerassero una minaccia futura, un’orda barbarica, un peso insopportabile?
Inutile non vedere, fuggire dal problema, cercare di risolvere crisi di proporzioni enormi con soluzioni semplici e slogan beceri.

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