Dolcino e Margherita, storia di un dialogo impossibile
di Leretico

Un amico bagosso mi parlò qualche mese fa di Fra Dolcino (1260-1307) e di alcuni espropri avvenuti nel 1327 a Bagolino...



Espropri che furono adottati contro ben 24 capi famiglia probabilmente appartenuti al movimento eretico dolciniano e residenti nel comune di Bagolino.

La pergamena che li condannò all'esproprio racconta tra le righe la tormentata storia di chi seguì Dolcino e fu per sempre travolto dagli eventi.
L'Inquisizione in quei tempi non andava molto per il sottile: esproprio dei beni a pagamento sia dei processi che della comodissima residenza in prigione prima del rogo.
Dolcino fece questa fine, come tanti altri capi di movimenti di rinnovamento religioso partiti dal basso e mai giunti troppo in alto (ad  eccezione di San Francesco).

La storia di Dolcino è interessante soprattutto perché fu un eretico (insomma, a suo modo, dissentiva).
In quell'ormai lontano 1303, Dolcino si era stabilito a Cimego, non distante dalla Valle Sabbia, insieme ai seguaci della setta degli Apostolici di cui era diventato il "Rector".

"Penitenziagite" era il loro motto, ce lo ricorda Uberto Eco nel suo famosissimo romanzo "Il nome della Rosa" (1985).
Tuttavia Eco disegna nel suo libro un fra Remigio da Varagine fin troppo attento alla carne e alla gola piuttosto che alla salvezza dell'anima, accompagnato da uno strambo e multilinguistico Salvatore, i quali non rendono nell'insieme molta giustizia al movimento dolciniano, nemmeno alla sua spinta idealistica di rinnovamento.

Anche Dante parla di Dolcino nella sua commedia.
Ovviamente lo mette all'inferno, nel canto ventottesimo, facendolo nominare da Maometto, dannato nella nona bolgia dove "l’auttore vide punire coloro che commisero scandali, e’ seminatori di scisma e discordia e d’ogne altro male operare":

«Or di' a fra Dolcin dunque che s'armi,
tu che forse vedra' il sole in breve,
s'ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch'altrimenti acquistar non saria leve.»

Dante, avendo ambientato il suo viaggio agli inferi intorno al 1300, anno in cui Dolcino ancora viveva, non poteva farlo parlare direttamente.
Scelse così un'escamotage creativo per considerarlo comunque un "seminatore di scisma e discordia"e condannarlo come tale.

Rocambolesca fu la fuga di Dolcino da Cimego nel 1304 verso la Parete Calva in provincia di Vercelli, passando per le montagne bresciane e bergamasche, per scansare le tenaglie dell'Inquisizione che lo cercava. Fuga epica se si pensa che Dolcino aveva un seguito di quasi cinquemila persone, tra cui forse gli espropriati di Bagolino di cui sopra.

La Parete Calva era un rifugio ideale
, costituito da un altipiano chiamato Pian dei Gazzarri, in alta quota, ampio, circondato da un anfiteatro naturale di altissime e insormontabili cime alpestri, adatto alla difesa ad oltranza. Dolcino era originario di quei luoghi e sperava bene di poter resistere a qualsiasi attacco se si fosse nascosto in quel rifugio naturale.

Sorge spontanea la domanda
su quanto potente fosse la capacità persuasiva di Dolcino nei confronti di contadini e montanari che lo seguirono così numerosi. Certamente la sua retorica, ma soprattutto le profezie legate all'Apocalisse, devono aver giocato un ruolo fondamentale.
Ciò nonostante tali ragioni non sono sufficienti per spiegare un tale successo. I cambiamenti in atto nella società medievale che stava passando dal regime feudale alla civiltà cittadina e proto borghese dei comuni, possono forse far inquadrare meglio il fenomeno di cui i movimenti eretici rappresentano una manifestazione sintomatica.

La ricchezza cittadina dei primi borghesi commercianti
, in relazione di mutua protezione con il potere ecclesiastico, era generatrice di contrasto sociale maggiormente con la povera vita di campagna che a quella ricchezza guardava con desiderio e ribellione.
Questi sentimenti di fondo alimentavano il fenomeno di tutti i movimenti pauperistici medievali come quello di Dolcino o quello di San Francesco, anche se con esiti oltremodo diversi.

Una cosa è certa: i socialisti di primo Novecento credevano fermamente in questa interpretazione, tanto che eressero sul monte Rebello un monumento alto più di dodici metri, poi sradicato dai fascisti durante il ventennio, a ricordo della strage avvenuta proprio a ridosso dell'ultimo rifugio dei dolciniani.
Quest'ultimi infatti vi erano giunti fuggendo, in una drammatica notte, dall'assalto che il Vescovo di Vercelli Raniero Avogadro aveva lanciato nel 1306 alla Parete Calva. Gli ultimi mille assediati riuscirono infatti a portarsi verso quel nuovo rifugio a costo gravissimo, superando le nevi fatali di alcuni passi montani molto impervi, per arrivare ormai stremati a Trivero, appunto sul monte Rebello.

Tutto questo non bastò tuttavia per salvarsi, perché Raniero Avogadro, ottenuto da Clemente V il bando per la crociata contro i dolciniani, sferrò l'attacco decisivo agli eretici il 23 marzo del 1307 (venerdì santo) facendone strage.
Si salvò solo Dolcino, la sua donna di nome Margherita e Longino da Bergamo, suo fedele secondo in comando.

Dai diari dell'inquisitore Bernard Gui si conosce il finale di questa tragica storia: Margherita fu tagliata a pezzi davanti agli occhi di Dolcino prima di essere bruciata sul rogo.
Sembra che rifiutò di salvarsi con l'abiura, propostale come estrema ratio, essendo lei nobile figlia di Odorico da Arco. Ma lei scelse la morte, forse per amore.

Dolcino, dopo che gli furono strappate le carni a pezzi con tenaglie roventi, fu evirato e bruciato sul rogo.
Lo stesso supplizio subì Longino.

Qualcuno ha notato che Dolcino somiglia straordinariamente al Savonarola, frate domenicano vissuto nella seconda metà del Quattrocento, elaboratore raffinato di profezie e predicatore infuocato contro i vizi dei ricchi e potenti signori di Firenze nonché della "Ecclesia".
Nonostante tra i due ci fossero quasi duecento anni di distanza, sembra che le ragioni di fondo che spinsero entrambi a scagliarsi contro la ricchezza fossero le medesime.

I marxisti hanno addirittura dipinto Dolcino con tinte eroiche, visto la sua origine e la sua lotta contro le classi abbienti e dominanti.
Gramsci poi considerò Savonarola non un religioso ma addirittura un politico moderno.
Più modestamente mi piacerebbe qui togliere almeno Dolcino da questa lettura culturalmente e ideologicamente impostata che interpreta la storia con gli schemi forzati e impropri della modernità.

Vorrei invece sottolineare il fatto che Dolcino, come tanti altri, fu vittima della sua stessa richiesta di cambiamento, fu vittima dell'impossibilità di dialogo tra esigenze sociali diverse e ingiustamente considerate troppo lontane le une dalle altre per trovare un compromesso adeguato.

Dolcino e Margherita morirono perché
nella società in cui vivevano non c'era spazio per il dissenso né esisteva un modo perché le critiche costruttive potessero divenire stimolo al miglioramento.
Troppo spesso dobbiamo constatare che a settecento anni di distanza dalla tragica fine che toccò agli eretici dolciniani questo modo, questa via del dialogo, ancora stenta ad emergere.
Sono cambiate le forme, ma i roghi esistono ancora.

Leretico
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