Ferita aperta
di Pino Greco
Il 28 fa quaranta anni. Poteva essere il tempo della memoria senza asprezze, quella dei reduci che hanno metabolizzato il lutto in adunate, rievocazioni, concerti e pacche sulle spalle...
... Magari con un fondo di fatalistica, inconfessabile nostalgia. Come in certi raduni partigiani di qualche tempo fa.
E invece piazza Loggia è ancora carni straziate e sangue che cola.
Ci sono ancora familiari che non si rassegnano e disabili che trascinano un’esistenza segnata. Ci son ancora assassini impuniti e mandanti nell’ombra. In attesa dell’ennesimo processo. Dopo i tre o quattro inutilmente celebrati.
Per qualcuno quel graffio è più profondo. Familiari a parte.
Cinque delle otto vittime erano giovani e insegnanti. Tutti militanti sindacali. Cgil- scuola. Chi ha vissuto quei tempi sa quanto fossero coinvolgenti certi legami. Ci metteva assieme un’aspirazione comune. La persuasione era incalzante. Ci chiamavamo compagni.
Compagno diventava una sorta di prefisso che poneva un nome su un altro piano , quello della franchezza, della disponibilità e del sacrificio condiviso.
Dovevamo esserci anche noi, quella mattina. Io e l’Aldo. Precettati dall’obbligo dell’ appartenenza.
Allora funzionava così. Era già faticoso mobilitare i colleghi per il contratto, per i soldi. Figuriamoci una protesta per rigurgiti fascisti, in città.
Morale: tra Vestone e Casto, unici scioperanti io e lui.
Appuntamento alle otto in Birreria. Già, perché scioperare non bastava. Bisognava rinfoltire il corteo in città.
Quei cortei che, al solito, venivano riempiti dalla Cgil, da un gruppetto agguerrito della Uil e da una selva di bandiere Cisl.
Il comizio, per tradizione, in Piazza Loggia: la grande bellezza.
A due o tre arcate di distanza da Piazza Vittoria, la grande freddezza, e da Piazza Duomo, la grande grandezza.
Già, con quella montagna di marmo proteso a marcare una vana supremazia.
Ma quella mattina pioveva che dio la mandava. In valle, in città, ovunque. Pioveva soprattutto sopra le incostanti guarnizioni della nostra Alfasud.
Un disastro.
Per l’Alfa Romeo e per i nostri propositi. Passò un’oretta fra un “partiamo?” e un “..ma chi ce lo fa fare ?”. Alle nove, tempo scaduto. Aldo convocato da tre autisti SIA per un ciapa-no, io a far finta di seguire le astrusità di quel gioco.
Insomma a far passare il tempo in qualche modo. In fondo la coscienza, col sacrificio devozionale della giornata persa, era a posto.
Alle undici il tempo si fermò. Dopo una telefonata arrivata alla stazione delle corriere.
Ho ripensato spesso a quella mattinata. Andare alla manifestazione non significava necessariamente trovarsi, alle 10.12, nel raggio di quei trenta metri fatidici. Ma sai, si poteva scambiare un saluto con la Cleme, la Livia, le compagne del direttivo.
Al riparo sotto l’orologio.
Ci potevano stare due chiacchiere col Gino.
Gino lo conoscevo bene. Saliva ogni sabato a Casto. Accompagnava sua moglie che s’era procurata una supplenza, in attesa di andare in maternità. Alle undici avevo un’ora buca. Così spesso si scendeva dalle sorelle Garatti a bere un calice.
Gino era un bravo ragazzo. Un compagno giusto. Di quelli che progettavano un avvenire complesso, ma scaglionato in traguardi misurati. Il lavoro, il rispetto, la dignità, la giustizia, la solidarietà.
Magari un ritorno fra i compagni rimasti in Puglia. La sua terra.
Si parlava volentieri con lui. Era cresciuto tra i braccianti. Piedi per terra, rifuggiva dagli ismi.
Pronto a divagare alla grande fra orecchiette strascinate, cavatelli, canestrato e Primitivo di Manduria.
-“ Quando torniamo su a settembre, ti porto due bottiglie di Salice Salentino. Oh, quello Leone de Castris. Vedrai ! “-.
Per gente nata sotto al Po (ma anche sopra) era un sicuro segnale di amicizia.
Ecco, pensavo, se lo avessi intravisto quel giorno sicuramente avrei scambiato due parole, e forse anche il destino. Benedette guarnizioni. Una riflessione che abbiamo fatto spesso, io e l’Aldo.
Ai funerali Gino non c’era. Era ancora in agonia. Gli fu sottratto il saluto convulso, esasperato e vibrante di centinaia di migliaia di pugni chiusi. Di una città moltiplicata per dieci. Con le vie d’accesso intasate dalle auto arrivate da mezza Italia. Col frastuono delle piazze. I canti. I fischi. La rabbia.
Al primo anniversario, una moltitudine dentro e fuori l’ EIB.
Un folla indescrivibile. Una trincea emozionale. Adrenalina e pietà, impeto e fraternità. Tutti stretti a cantare con gli Inti Illimani. Gli ideali annullavano le distanze.
El pueblo unido era ancora un’utopia possibile.
Fu la sera che decisi di restare. Un mese dopo avevo già la targa cambiata.
Fiero di quel BS che dovunque andavo segnalava un’appartenenza degna di onore e di riguardo.
Brescia Maggio 2014 - P i n o G r e c o
In ricordo di :
• Giulietta Banzi Bazoli, insegnante
• Livia Bottardi Milani, insegnante
• Luigi Pinto, insegnante.
• Alberto Trebeschi, insegnante.
• Clementina Calzari Trebeschi, insegnante.
• Euplo Natali, pensionato
• Bartolomeo Talenti, operaio.
• Vittorio Zambarda, operaio.