Non serve arrabbiarsi o maledire»
Vi scrivo della malattia che mi ha colpito due anni fa, che magari pu aiutare qualcuno a comprendere cosa ti riserva una cosa cos "sconvolgente", che ti cambia la vita


Due anni fa affrontavo una delle prove più dure della mia vita.
A luglio durante uno screening (a proposito fate gli screening possono salvarvi la vita) mi veniva diagnosticato un tumore al retto.
Dopo un primo momento di totale annebbiamento, decidevo con il sostegno importantissimo di mia moglie di affrontare ciò che il destino mi aveva riservato.
Dopo alcuni consulti con i medici, intervallati da esami clinici per stabilire a che punto fosse arrivato il male, con la conferma istologica della neoplasia, dovevo trovare i medici che si sarebbero presi cura di me.
 
La scelta cadde sul dottor Roncali, medico chirurgo della seconda chirurgia degli spedali civili di Brescia.
Mi visitò nella clinica Santa Maria di Vobarno, consultò gli esami ma soprattutto mi parlò con franchezza di tutto quello che avrei dovuto affrontare.
Sarà dura mi disse, molto dura ma ce la possiamo fare.
 
Di lui mi colpì molto l’umanità che me lo faceva vedere uomo prima che medico.
Mi accompagnò dal dott. Barbera, medico del reparto di Radioterapia del civile, che mi parlò, anche lui  in maniera schietta ma incoraggiante.
Sarà dura, mi disse ma dobbiamo farcela.
 
In agosto mi installarono nel torace un port a cath (è un dispositivo biotecnologico che permette di avere un accesso venoso centrale permanente.
Consiste di un catetere in genere di silicone, posizionato per via percutanea in vena succlavia, giugulare o femorale, con estremo distale in vena cava superiore o inferiore; il catetere è collegato ad uno o più reservoir, anch'esso in silicone o titanio, totalmente impiantabile nel sottocute) per poter effettuare meglio le chemio.
Feci dal mese di settembre 6 settimane di radio-chemio terapia per meglio preparare l’operazione, seguite da alcune settimane di stop secondo il protocollo standard per questo tipo di malattie.

Ogni giorno dal lunedì al venerdì mi recavo all’istituto del radio del civile, per sottopormi alle cure quasi sempre accompagnato da mia moglie o da amici, raramente da solo.
Fu un periodo duro è inutile che ve lo scriva.
Li all’istituto del radio, purtroppo, c’era il pienone. Gente da ogni parte d’Italia che, meno fortunata di me, doveva abbandonare lavoro e affetti per affrontare il viaggio della speranza.
 
Io tutto sommato mi sentivo un privilegiato a poter rientrare tutte le sere a casa per rifugiarmi tra le mie cose ed i miei affetti.
La seconda settimana di ottobre terminai la radio-chemio terapia e l’intervento venne fissato per l’11 novembre 2011.
Il 10 puntuale alle 6.30 mi recai in ospedale e qui il destino decise di mettermi ancora alla prova. Ancora più duramente.
 
Mi ero appena messo a letto quando ricevetti una telefonata da mia sorella.
Mia mamma, da tempo ammalata, era morta. Mia sorella si scusò (come se fosse colpa sua) mi disse che, non sapeva cosa fare, se dirmelo o meno.
Consultò il dott. Roncali che le disse: non può non saperlo. Volevo andare via, rimandare tutto.
Vennero da me i medici il dott. Roncali, il primario dott. Ragni, che mi dissero di non farlo, che era un intervento che non si poteva rimandare.
 
Mia moglie, mia sorella i miei amici mi pregarono di restare in ospedale, che non c’era niente che io potessi cambiare.
Capii in quel momento che qualunque decisione avessi preso sarebbe stata quella sbagliata. Correre da lei e accompagnarla nel suo ultimo viaggio o darmi una possibilità.
Ottenni un permesso per poterle stare accanto almeno quel giorno e poi rientrai in ospedale.
 
L’operazione (il termine tecnico è: resezione anteriore del retto) andò bene.
Fui assistito molto bene dal personale della seconda chirurgia e nel giro di una settimana rientrai a casa con la compagnia di una ileostomia provvisoria che mi fece dannare il primo mese.
Quel sacchettino si staccava nei momenti meno opportuni e credetemi, la cosa era spiacevole ed imbarazzante.
L’unica consolazione era sapere che in un paio di mesi mi avrebbero operato per ricanalizzarmi.
 
Il secondo mese andò molto meglio: come in tutte le cose ci vuole un periodo di apprendistato.
Durante la prima visita oncologica di controllo, il dottore incaricato mi disse che per quanto tutto fosse filato liscio, dato lo stadio della malattia, era opportuno eseguire un ciclo di chemio cosiddette adiuvanti.
Una “prevenzione” in parole povere.
 
Feci questi sei cicli (tre giorni ogni quindici) di flebo e, nel mezzo, l’operazione che mi permise di togliere il “sacchetto” ricollegando l’intestino.
Dovevano essere otto cicli ma una parestesia insistente agli arti dovuta ai farmaci chemioterapici consigliò i medici a ridurre il periodo.
La parestesia degli arti (in pratica si sentono delle punture di spillo alle mani ed ai piedi, esacerbate dal freddo) può essere irreversibile ed io ne soffro ancora.
Periodo duretto ma sopportato abbastanza bene.
Dunque ricanalizzazione intestinale e altra settimana in ospedale dai miei amici in seconda chirurgia e poi a casa.
 
Queste chemio adiuvanti, le feci sempre all’istituto del radio al Civile, ma non nel “bunker” sotterraneo del centro Alte Energie, dove ci sono tutti i macchinari ad altissima tecnologia (li feci le sei settimane di radio-chemio terapia) bensì al primo piano nel Day hospital di Oncologia Radioterapica, assistito da personale infermieristico umanamente e professionalmente di prim’ordine e anche qui in compagnia di tante persone (anche molto giovani) che affrontavano cure anche più complicate e destabilizzanti delle mie.
Terminai le cure a fine marzo 2012.
 
Ora a due anni di distanza, conduco una vita quasi normale.
Quasi perché chiaramente molto è cambiato in me e fuori di me.
Psicologicamente è quasi più difficile adesso sopportare l’idea della malattia e che essa possa ripresentarsi.
 
Fisicamente ovviamente non sono più quello di prima; se due anni fa mi sentivo dieci anni in meno di quelli che avevo anagraficamente, ora me ne sento dieci in più.
Faccio i miei controlli (prima ogni quattro ora ogni sei mesi) incrociando le dita, sapendo che fuori pericolo (si fa per dire) non lo si è prima di cinque anni.
Ma tant’è, non posso fare altro che sperare, dopo che la medicina ha fatto quel che poteva.
 
Ho scritto questo racconto sperando che leggerlo possa servire a chi come me sta affrontando o dovrà affrontare questa malattia.
Sapendo che, nessun caso è uguale ad un altro, ma sapendo anche che la differenza tra vivere o morire in questi casi la fanno anche la tempestività della diagnosi, la capacità dei medici ed il nostro atteggiamento di fronte a questo subdolo nemico.
 
Posso dire che non serve arrabbiarsi o maledire.
Rifugiatevi nei vostri affetti, nei vostri amici. Se avete fede pregate.
Affidatevi alle cure di bravi medici che, per fortuna, esistono ed esistono qui vicino a noi.
Queste sono le cose che mi hanno sostenuto.

Lerrera firmata
 
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