La storia del gavardese Domenico Buccella
Domenico Buccella, da sempre fotografo a Gavardo, nello studio del quale ora si occupa il figlio Enrico, fu uno dei pochi che riuscě a lasciare il lager nel quale morě Anna Frank

 
Domenico Buccella e Anna Frank. Le loro strade si sfiorano appena, in quegli ultimi giorni di ottobre del 1944.
Un treno che parte mentre un treno sta arrivando, strumenti di un opposto destino: perché il primo dei due è l’estremo salvacondotto da un inferno che è lì lì per cominciare, e che per scatenarsi attende proprio che l’altro convoglio giunga al capolinea.
 
In quegli ultimi giorni di ottobre il gavardese Domenico Buccella, classe 1924, è recluso nel lager di Bergen-Belsen.
Nel ’43, dopo l’undici settembre, lo hanno catturato con altri commilitoni e lo hanno portato in Germania: al campo di Wietzendorf, e poi ad Hannover.
 
«Una domenica mattina- ricorda oggi - è venuto da noi il console italiano, c’erano bandiere da ogni parte.
"Il Duce si è occupato di voi, ha spiegato, e ha ottenuto dal Führer che da oggi siate considerati liberi lavoratori, e non più prigionieri. Dovete solo firmare questi documenti".
Nessuno, di tanti che eravamo, si è mosso. Il console ha ripetuto tutto dall’inizio, pensando che non avessimo capito.
Allora il nostro capo-campo ha fatto un passo avanti: "Non abbiamo firmato quando ci hanno condotto qui come prigionieri, ha detto, e non firmeremo adesso per ritornare civili". Il console è diventato rosso in faccia, ha ordinato di riavvolgere le bandiere e se ne è andato».
 
In quel periodo Domenico è malato, le gambe gonfie come tronchi d’albero.
Gli promettono di ricoverarlo in ospedale, lo caricano su un treno.
«Altro che ospedale. Mi hanno portato a Bergen-Belsen» sospira Buccella. In quello che oggi conosciamo come uno dei più terribili campi di sterminio nazisti, il gavardese trascorre alcuni mesi.
«Il nostro era il settore riservato ai militari italiani. Proprio di fronte a noi c’erano le camere di disinfestazione.Una volta la settimana, dopo averci fatto fare la doccia, cacciavano lì dentro i nostri abiti per ripulirli dai pidocchi con il gas, e noi dovevamo aspettare tutti nudi che ce li restituissero».
 
Domenico Buccella non poteva sapere, allora, che di lì a poco quelle camere di disinfestazione sarebbero state destinate ad altro.
Nei mesi successivi, Hitler dà il via a Bergen-Belsen a una gigantesca operazione di genocidio, programmata con diabolica meticolosità. Nel lager tedesco moriranno, è stato calcolato, quasi centomila persone.
 
«Se io, invece, ho potuto scamparla - racconta Domenico, - è stato per un incredibile colpo di fortuna. Il 26 ottobre mi prendono e con un gruppetto di miei compagni mi rimandano ad Hannover, dove servivano alcuni operai. Non so perché abbiano scelto proprio me. E’ stato un puro caso.
So però che grazie al caso io sono ancora vivo. Ad Hannover mi hanno spedito a sgobbare come uno schiavo in un salumificio, ma almeno lì non crepavo di fame. Ho continuato a salare pancette sepolto in una cantina insieme a un prigioniero russo fino al 10 aprile ’45, giorno in cui in città sono entrate le truppe americane».
 
Quel 26 ottobre, quando Buccella mise piede sul suo train-de-vie, Anna Frank era già in viaggio sull’altro convoglio, il convoglio che da Auschwitz la conduceva a Bergen-Belsen.
Anna, da Bergen-Belsen, non è uscita mai più.
 
«Penso spesso a lei -confida Domenico, che anche di recente è tornato in Germania, a rivedere i luoghi delle sue memorie dolorose. - A lei che arrivava mentre io partivo. A lei e a tutti quelli come lei che non hanno avuto la mia buona sorte. A lei e a tutte le vittime della follia degli uomini».
 
di Enrico Giustacchini, dal Giornale di Brescia
 
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