Il salame dell'appartenenza
di Pino Greco

Questo "reportage" di Pino Greco, firmato tre lustri fa, venne pubblicato in inglese da RISK International, con versione in Inglese. Insomma č un "pezzo" cult


Era lì, a cavallo di certe strade che si incrociavano e poi sparivano tra gli alberi.   
Qualcuna saliva, altre scendevano. 
Tutte invariabilmente legate al destino delle montagne che lassĂą si congiungevano emergendo da due laghi e dalla foschia leggera delle convalli valsabbine. Disseminate nel verde, con la rusticitĂ  schiva dei fienili o con una pretenziositĂ  da miracolo economico, apparivano le case.
Sopra stava il cielo. Ora sfolgorante, ora ribollente di nuvolaglie vaporose, ora plumbeo e premonitore. Conficcato alle cime dei larici rinsecchiti. 
 
La chiamavamo Fobbia, per estensione di un toponimo assai familiare nelle vallate alpine. Non era un luogo, troppo disperso e indefinibile. Non era un borgo, centrifugato ai margini delle strade e mimetizzato fra castagni e vermigli  malì .
Era un territorio della memoria intersecato da boschi, valloni umidicci ed viottoli polverosi segnati da rami di nocciolo. Era una suggestione da rinfocolare ogni tanto.    
Il mistero intrigante di certe giornate qualunque che diventavano memorabili e andavano a incasellarsi nell’immaginario collettivo di un gruppo di amici.

Dalla Fobbia passavano in tanti. 
Cacciatori in trepidanti andirivieni e ambientalisti Rambo-style, salutisti domenicali in caleidoscopiche mountain-byke ed esibizionisti in Pajero top-driver, cercatori di funghi dal passo appagato e sfigati da “boccata-d’aria-dopo-l’abbuffata” su Opel da revisione e suoceri rigorosamente al seguito.
Passavano, appunto. Movimentavano per qualche secondo lo sfondo appannato di una finestra a tendine giallo-blu, poi di loro sfumava la percezione. Al massimo un commento distratto o un porcaccio per la molestia dei rumori.
 
La Fobbia, infatti, si viveva dentro. 
Dentro quelle case tirate su con la genialitĂ  parsimoniosa di chi faceva altri mestieri e si era improvvisato muratore per accatastare i mattoni di un sogno.
Sogno di possesso, di conquista di uno status. Materializzazione di avventure e di evasioni inconfessate tra i boschi delle favole, del panico ancestrale, delle prove di ardimento, delle ostentazioni virili, del gioco della vita raccontata.
Non c’era angolo, struttura o invenzione architettonica in quelle case che non avrebbe potuto essere modificata alla bisogna. Così restavano cantieri perenni, con in giro cumuli gibbosi di plastica farcita di muffa e aghi di pino, a copertura precaria di ammassi induriti di sabbia, mattoni e cemento.
 
Gli interni poi si somigliavano tutti.
Materiali austeri, spazi risicati, arredi di recupero. Assemblaggio di provvisorietĂ . Sopravvivenza di suppellettili estromesse dalle primitive funzioni e riciclate con rispettosa condiscendenza.
Un museo permanente di memorie familiari, una vetrina del  “come si stava" serbata con la devozione che merita un passato modesto, riscattato con la tenacia del lavoro onorato. Come si usava un tempo. Era questo il fascino della Fobbia.
Era quella sensazione inesprimibile di appartenenza, quel linguaggio che attraversava esperienze, personalità, ideali e sfaccettature diverse, ma tutte invariabilmente radicate nello stesso humus.  Nel terreno che accoglie i paesi, i continenti e l’universo delle esistenze ordinarie, dei sentimenti comuni.
 
Certe domeniche in Fobbia ci si ritrovava in tanti. Professionisti e operai, commercianti e professori, perdigiorno e funzionari di banca, politici in carriera e militanti in preda alle frustrazioni del riflusso.  Ci si chiamava Tone, Baffo, Lele, Vecio, Zambo. Semplicemente.
Dentro quei cucinotti fumosi e vocianti: azzeramento delle diversità, sospensione dell’esercizio delle intellettualità singole.
Una sorta di omologazione all’unicità del contesto ed al senso di rispetto per le atmosfere, gli eventi e le intenzioni che gli oggetti tutt’intorno evocavano.
L’idea che dentro quelle case altri attori, ormai andati, avevano vissuto le stesse sensazioni, con gli stessi rituali, denunciava l’inutilità di ogni smania di protagonismo.
Soprattutto ci si asteneva dal profanare la discrezione fossilizzata di certe reliquie in disuso. La raccolta ordinata di Gialli Mondadori, flaccidi di umiditĂ  e cosparsi di polvere unta. La poltrona di cretonne informe come la gonna di un culo in cura dimagrante. Un barometro incurante di depressioni e di gran secchi, penzoloni su una fetta di tronco con corteccia incorporata. I vasetti di ciliegie sotto spirito, pallida testimonianza di anacronistiche e rimpiante premure materne. Le cartucce usate del Dodici in fila sul camino a raccontare tutta una mitologia sparita nella memoria.
 
Una volta o l’altra il Tone, all’apice di certe sue strampalate nostalgie alcoliche, richiamava in vita qualcuno di quei feticci.
Sbocciavano per qualche istante gli aneddoti, colorati dal fervore di una fantasia commossa e assaporati con una partecipazione curiosa e rapita. Ma le emozioni più  intense le procurava il vecchio giradischi. Un “Geloso” compatto, tenuto assieme con elastici e nastro adesivo. E con lo spazzolino di velluto a saltellare sul braccio che si apriva la strada fra solchi devastati di rozzo vinile. Le casse di plastica finto-legno, poi, ansimavano generose facendo gonfiare le reticelle lise.

Il gracchiare affannoso riusciva a impreziosire il recupero di motivi dimenticati e certe distorsioni, più che offendere, trasfiguravano magicamente le performances di interpreti famosi seppelliti nell’oblio collettivo.
In ogni caso la musica faceva da volano ai cori e il revival incendiava i protagonismi canori della compagnia.
Ma questo avveniva solitamente dopo, alla fine. Già, perché il ritrovarsi in Fobbia per lasciarsi andare a un’immersione sfrenata nella natura e nella sua trasfigurazione fantastica, poteva significare tante cose.
Per esempio spaccare tronchi risalendoli per costoni ripidi e scivolosi. Oppure cercare funghi tra la boscaglia più arruffata. Riconoscere la tana o il passaggio di un selvatico. Dissetarsi ad una sorgente gorgogliante tra il muschio e le felci. Arrampicarsi sull’erta del Manos confrontando i tempi con improbabili record precedenti. Presagire temporali burrascosi o rasserenamenti vividi cogliendone gli indizi sulla corona dei monti lontani.
Tutte prove di baldanza virile e simulazioni di maestria, propiziate da quella palestra poligono che era la Fobbia.
 
Ma al centro di tutto, come un sole copernicano, stava il mangiare.
Attorno alla tavola immancabilmente ci si disponeva come per una liturgia usuale ed arcana. Era lì che certe energie della comunicazione si accumulavano predisponendosi ad una trasmissione liberatoria.
I pranzi erano per lo più frutto dell’improvvisazione o anche di programmazioni scombinate che si sovrapponevano ad iniziative analoghe. Si creava, così, l’imbarazzo di piatti doppioni che si ritrovavano a gareggiare per l’oscar gastronomico di una domenica qualunque, di una stagione qualunque, di un anno come tanti.
 
In sei, in otto, in dieci e più, attorno alla stessa tavola imbandita con un guazzabuglio di apporti che andavano dal calice a stelo al bicchiere di plastica ingiallita, dal coltello acciaio-inox alla forchetta di alluminio storpiata dall’uso prolungato, ci si disponeva a distillare un piacere che non veniva dai sapori a dai profumi. Si imponeva, invece, il cumulo di sensazioni stravaganti che ciascuno proiettava su quell’insieme  di gestualità e di cibi tutto sommato abituali.
Ognuno, insomma, si apparecchiava dentro un cantuccio di emozioni esclusive, per poi trasmetterle a brandelli significativi ricorrendo a quel codice che per lungo affiatamento era divenuto universalmente comprensibile.
 
Frasi sconnesse, allusioni criptiche, borbottii ammiccanti. Non occorreva molto di piĂą per alimentare i canali della comunicazione e mantenere su livelli elevati il tasso di partecipazione a quel cerimoniale eccitato e rilassante, prevedibile e intrigante.
Si mangiava e si parlava. Con quelle sovrapposizioni che normalmente creano un senso di fastidio, ma che in quelle occasioni sortivano un curioso effetto rivelatore dell’evanescenza delle parole e dei messaggi che, con esse, ci si illude di trasmettere. 
Una babele di sfoghi e di scorrerie a ruota libera fra maldicenze e sviolinate, sberleffi e rievocazioni affettuose. Quando si arrivava al salame era fatta.
 
Il salame segnava lo spartiacque fra la giornata comune e quella memorabile. Al salame si arrivava dopo aver inzuppato, spalmato, piluccato, sgranocchiato, infilzato, succhiato, spizzicato.
Lui, invece, non esigeva operazioni complesse. Niente convenzioni, nessuna accortezza, quasi nessun commento. Tagliavi e mettevi in bocca.
Lo spiedo si trascinava dietro un codazzo di distinguo, implacabilmente confrontato con altri cento.
La tiragna faceva rimpiangere sempre il formaggio che mancava.  
Un’insalata soggiaceva all’imprevedibilità di quelle strane alchimie che fatalmente sballano ora il sale, ora l’olio, ora l’aceto. 
 
Lui se ne stava lì, compiuto ed assoluto. 
Non c’era in giro chi l’aveva cucinato né chi l’aveva condito. Ognuno tagliava come cavolo gli pareva, senza lo scrupolo di magnificare o di demolire a tutti i costi.
 
Il salame era la metafora della vita appagata, del superfluo che forniva un’integrazione costante di saporosità pastose e piccanti ai livelli di bramosità dei convitati. Supporto e parentesi ideale per certi Groppelli briosi e svagati, lusinga di certi Lugana sapidi e tonificanti, egli si compiaceva del suo gregarismo incondizionato senza reclamare riconoscimenti.
Solo alla fine, quando la sazietà fiaccava il più ostinato autoerotismo gastronomico, a qualcuno veniva in mente: 
-  Buono questo salame…da dove viene?
 
Grande cuore il salame. Discreto e prodigo, alimentava gli umori grassi di quella fraternitĂ  estatica, la foga degli slanci canori e il fervore di certe utopie progettuali, senza nulla pretendere se non un generico attestato di genuinitĂ .
Ecco, il salame somigliava alla Fobbia.
Natura, stimoli, generositĂ , suggestioni. Un compendio di valori intrisi nella concretezza della materia e nella sobrietĂ  delle forme. Mai esibiti, mai occultati. Serbati semplicemente per essere goduti.
 
Mi è capitato spesso di commiserare la sorte di certi salami sviliti a funzioni ornamentali in commistione spuria con sottaceti, tocchelli di formaggio e lische di alici smunti. Tutti ugualmente relegati nel limbo di certi antipasti da osteria. Proprio lui, riserva strategica di nutrimento, deposito di gustosità, epopea di memorie gastronomiche, suggello di quelle rimpatriate che fanno impennare il sismografo assonnato della quotidianità.
 
Ma forse nel tempo il salame si è geneticamente conformato all’indole dei contadini e dei montanari.
Di quelli che governano le risorse primarie dell’umanità, confrontandosi umilmente con le avversità dei climi e l’avarizia dei suoli, senza reclamare mai nulla per sé.
Per non parlare del salame operaio, artigiano o comunque popolano. Magari situato sul crinale neutro dell’interclassismo.
 
Ecco, quando il groviglio scombinato delle sensazioni  eccita l’energia di certe evocazioni, è forte il desiderio di ritornare in Fobbia.
A far scorrere le ore sotto quel cielo. Tra i boschi impassibili. Dentro quelle case senza tempo.
E bere a cantare con gli amici. E mangiare il salame della comune appartenenza.
 
Pino Greco

 

 

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