Il giro grande
di Pino Greco

Qualche tempo fa ho provato con google maps. Centrare, zoomare, avanzare, orientare, ricentrare una palla! A farlo realmente, l'ultima volta, tre ore e mezzo. Senza un momento di noia


Quello che si dice un grande giro. Da Crone a Crone. Scarpinando fra i boschi, i torrenti e i prati dell’altra Idro.
Già, perché i paesi di valle sono fatti di due terre. Quella concava su cui poggiano. In genere angusta. Contesa da strade, fiumi o laghi. Quella convessa, da cui sono contornati. Più o meno scoscesa, più o meno popolata di boschi, di prati e di rocce.
Per lo più ammirata, ma generalmente sconosciuta.
Di qui quella voglia di esplorazione, di scoperta, di appropriazione di un territorio essenziale per sentirsi parte, non solo di una comunità, ma anche di una porzione esclusiva di mondo.
 
Girare a piedi non è come farlo in bici. La bici ti porta lontano, ma assorbe la tua attenzione, costantemente. Soprattutto in discesa. Le auto e le moto, le buche, la ghiaia, le curve cieche, un giubbino da indossare o da togliere, il cappellino da accudire perché non voli via. Uno stress!
A piedi è un’altra cosa. A piedi non ci sono impicci e, una volta assunto il controllo delle operazioni biodinamiche, ci si sintonizza con i ritmi del pensiero e la fatica si diluisce fra i muscoli e la mente.
Allora il paesaggio ci scivola intorno come proiezione della nostra volontà di esplorazione.
 
Lo si percepiva subito, alla svolta di Vantone.
Lì si lasciava l’asfalto e si prendeva la vecchia strada per Capovalle. Si girava attorno alla locanda della Nabaffa. Un must valligiano degli spiedi. In autunno il profumo era permanente. I giorni di festa era una lusinga adescatrice.
Di lì, fatti pochi passi, il lago spariva. Cancellato da una galleria di robinie, di pioppi, di carpini. Qualche castagno.
La strada  impennava zigzagando accanto al torrente, fra macchie dilaganti di felci.
 
Si entrava nella dimensione dei silenzi e dei suoni del bosco. Un bosco operoso. Almeno ai miei tempi. Col borbottare lamentoso di seghe lontane. I sibili e i tonfi delle teleferiche che scaricavano a valle. Le volute di fumo dei  poiàt.
Un cantiere diffuso dove si provvedeva al taglio degli alberi secondo una pianificazione ordinata. Che modificava il paesaggio per fornire risorse primarie di energia. Quelle che oggi chiamano biomasse.
Esteticamente non era il massimo, ma nel giro di qualche anno si sapeva che la natura avrebbe suturato le ferite. Si procedeva in solitudine, ma la sensazione era quella di passare per una strada di paese. Dove c’è sempre uno sguardo che osserva, che accompagna, che  protegge.
 
Dopo il ponte si tornava sull’asfalto. Una pendenza tosta, ma regolare. Tra la vegetazione che cambiava e qualche prato in abbandono. C’era un larice monumentale spesso guarnito di un puntale anomalo. Un corpaccione nero-bluastro e una testa rossa. Da perderci tempo a rimirarlo.
Fra i miei amici contavo decine di cacciatori, ma non ho mai passato la dritta su quel gallo stupendo. Facile, facile da copàa. 
 
Qualche tornante prima del valico, svolta a destra. Il bosco tornava silenzioso. In compenso echeggiavano antichi, leggendari sferragliamenti. I fantasmi del Barbarossa, del Frundsberg, di Napoleone. Le camicie rosse garibaldine.
Chi scendendo alla bassa, chi salendo verso il Trentino. Tutti per evitare le trappole del lago e della Rocca d’Anfo. Intanto, oltre il pendio scorbutico e pietroso, si scoprivano lembi di lago e i profili bruniti del Blumone.
 
Prima del santuario, uno zampillo striminzito a sgocciolare dalla roccia. Dissetarsi è un esercizio di sopportazione. Del resto lì attorno si respira aria di prodigi.
Della Madonna del Rio Secco si è scritto e raccontato. Per me il miracolo autentico era quella chiesa edificata a dispetto del buon senso e della gravità. Su un pendio impervio Senza rinunciare al confort della capienza e all’eleganza delle forme. Una sorta di eremo raffinato, sovrapposto alla strada.
Di lato una porticina inquietante. Con la scritta: “Entra, qualcuno ti attende”. Beh, confesso che pur essendo mediamente curioso e temerario quanto basta, non mi sono mai azzardato a bussare.
 
Il passo del Cavallino, il punto più elevato, assemblava case, fienili, baite e perfino un albergo-ristorante.
Tutto nel raggio di cento metri. In autunno, al passo delle cesene  diventava un poligono. Di lì si tornava a immergersi nel bosco. Fino alla Fobbia e oltre. Alla stagione giusta sentivi gli umori grevi delle fungaie. La brezza faceva risalire gli effluvi delle stalle più in basso. Alla Fobbia, qui e là, camini in azione. Una volta o l’altra un saluto al Gianni. Il mitico Perlonc.
 
Poi si cominciava a scendere. Verso Treviso la montagna si anima. Cascine sparse. Non tutte abitate, ma sicuramente vissute. Alberi da frutta, qualche orto, cani irrequieti a proteggere i poderi incustoditi. 
Dopo il Santellone, il bosco dirada e, soprattutto dalla parte sinistra, cominciano a srotolarsi  i prati. Fino a Vico e Trebbio. L’orizzonte si slarga a lambire le foschie della bassa.
Ritorna il sole a scaldare le spalle e a baluginare sugli occhiali. Un effetto che rimescola forme e colori in un rutilare mimetico. Soprattutto di certi alberelli che costeggiano il margine della strada, separati, si fa per dire, da velleitari steccati irreparabilmente corrosi dal tempo. Non è facile distinguere le foglie dai frutti, ma si va  a memoria.
 
Devo ammetterlo, il giro grande era una specie di test.
Da ripetere due o tre volte l’anno. Irrinunciabile, però, quella di  luglio, quando maturavano le amarene. Su quegli alberetti facili-facili. A confine.
Non era istinto predatorio. Era la condivisione di una delizia elargita al viandante. Una generosità inconsapevole da fruire con gratitudine e senso della misura.
Non più di cinque o sei frutti, raccolti in una mano, da gustare strada facendo. Uno alla volta.
Per prolungare quello stupendo gusto acidulo-amarognolo fino alla pianta successiva e, giù-giù, fino a Vico e Trebbio.
Arrivederci all’anno successivo. Con la sensazione  di aver ripetuto gesti incolpevoli di una socialità primitiva e munifica. Quando i frutti della terra non avevano padroni. A patto di usufruirne con rispetto e parsimonia.
 
A luglio maturavano anche le fragole. Quelle selvatiche. Di bosco.
Nel giro grande erano comprese anche loro. Negli ultimi chilometri che scarrozzano in cinque o sei tornanti a Idro. Con le gambe legnose e la cenestesi alterata per la fatica disseminata fra muscoli e ossa, si avvertiva il bisogno di un viatico corroborante.
Le fragoline sono un dono prezioso. Era scontato che bisognava penare a cercarle. Aiutava l’esperienza degli anni precedenti.
 
C’è una striscia che costeggia l’asfalto. Ora esigua, ora più larga.
Esclusa ogni velleità di addentrarsi nella boscaglia che s’impenna, a destra, e precipita a sinistra, la ricerca si restringe a qualche metro. Al massimo una decina. Bene, era proprio lì che avveniva il prodigio.
Ne scorgevi una. Un timido rubino. Quasi un grano di melograno. Ma prima di chinarti giravi lo sguardo lentamente per non perdere il fuoco della distanza. Poi scorgevi  il frammento di un’altra, seminascosta da una foglia. Bisognava insistere, fino a memorizzarne il più possibile.
 
Era il momento della raccolta. Pollice e indice. A volte il medio, per una pressione più lieve. Quelle staccate finivano nel palmo della mano. Come con le amarene. Custodite premurosamente dal resto delle dita. Quando ti sembrava di averne contate sei o sette, ti rialzavi, soffiavi leggero sul pugno allentato e, delicatamente, facevi rotolare le fragoline in bocca.
Basta, finito. Non capitava mai di continuare a perlustrare. Quel gusto intenso e appagante  ti accompagnava per centinaia di metri. Fino alla macchia successiva.
E se non trovavi nulla, pazienza, si continuava a scendere. Con quel senso di appagamento che a volte riescono a dare piccoli gesti. Dettati dall’istinto e dall’appartenenza.

 
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