I colori del mondo
di Leretico

Quel pomeriggio piovoso si sarebbe rivelato più movimentato del solito. Alberto era appena rientrato in ospedale dopo il precedente turno notturno e il viso di Carolina, l'infermiera dedicata all'ausilio del reparto infettivi, non prometteva nulla di buono...


Il suo sopracciglio sinistro inarcato era il segnale certo che nell'ufficio del primario si preparava la burrasca. L'improvviso innalzarsi del suo indice monitorio e la successiva indicazione di affrettarsi a raggiungere il luogo dove la tempesta avrebbe espresso il massimo della sua potenza, non gli lasciò margine per i dubbi: il capo voleva vederlo.
Senza scomporsi più di tanto, si avviò verso l'ufficio del primario con la sensazione ancora vivida di quel dito inquisitorio che gli ricordava la sua maestra elementare. Forse la reincarnazione funzionava davvero.
 
Si fermò davanti alla porta, si sistemò il camice bianco, la penna nel taschino, uno sguardo verso l'alto a chiedere la protezione dei numi tutelari dei medici aiuto-primario, sempre latitanti nel momento del bisogno, bussò con una certa decisione alla porta di rovere che ancora lo separava dalla tempesta:
- Avanti - tuonò il primario da dietro l'imponente scrivania.
Alberto aprì la porta con un certo piglio e sostando sulla soglia nella luce che proveniva dalla finestra di fronte chiese:
- Voleva parlarmi?
 - Sì, cercavo proprio lei, entri e si accomodi.
 
Alberto si sedette e appoggiò una mano sul bordo della scrivania che ormai, come una zattera tra i marosi spinti dalla forza inesorabile del vento, stava per essere travolta dall'energia debordante del primario sull'orlo dell'esplosione.
- Che succede? - chiese non curante Alberto.
- Ascolti bene signor Germini, se l'anno scorso l'ho chiamata al ruolo di aiuto-primario, pensavo di aver fatto una scelta sensata, ma lei con le sue azioni, che definirei per lo meno bizzarre, mette continuamente in forse il mio giudizio e la mia pazienza!
- Mi scusi, non capisco...
- Ah non capisce? Mi sa spiegare come dovrei interpretare un morto lasciato su un lettino nel bel mezzo del giardino dell'ospedale, per due ore durante la scorsa notte?
- Due ore e mezza per la precisione...
- Non faccia il pedante Germini! - gli urlò il primario che ancora si tratteneva.
- Ascolti dottore, - tentò Alberto - erano le 22:30 quando quello che lei chiama "un morto" sembrava appunto essere passato a miglior vita nella camera 23. Lei lo sa che non si possono lasciare i deceduti nelle camere insieme ai vivi...
- Certo che lo so, Germini, vuole insegnarmi il mestiere...
- Lungi da me, dottore, ma a quell'ora gli infermieri non hanno voluto saperne di portarlo all'obitorio, era quasi fine-turno e stavano per andare a casa. Lo sa, le solite scuse. Ho provato anche ad alzare il tono per ottenere aiuto per quel poveretto, defunto, ma nulla, solo minacce di denunce al sindacato e altre panzane simili. Allora...
- Allora?
- Ebbene allora ci ho pensato io! - disse Alberto puntando il dito verso il proprio petto, un altro dito, un'altra volta l'immagine della maestra reincarnata in Carolina.
- Questo fatto era già chiaro, io voglio sapere, invece, perché lo ha lasciato due ore e mezza in giardino, e poi stanotte nevicava, insomma perché? - Gridò il direttore quasi disperatamente.
- La risposta è molto semplice: l'obitorio era chiuso. Me ne sono accorto quando sono arrivato davanti all'entrata. Allora sono tornato indietro con il mio lettino verso il reparto da cui ero partito, attraversando il giardino, ma in quel mentre c'è stata l'emergenza del Mariotti e...
- Ah, sì, ho saputo. Allora vuole insinuare che se lo è dimenticato nel giardino per due ore e mezza? Ma si rende conto?
- Certo che mi rendo conto, ma non potevo lasciarlo davanti all'entrata dell'obitorio così, come un pacco in attesa di consegna. Allora ho fatto avvertire la portineria di chiamare al telefono il responsabile dell'obitorio, in modo che andasse ad aprire e vi ricoverasse prima possibile il lettino e il suo occupante. Ci sono volute due ore e mezza, ma tutto alla fine si è risolto senza problemi, come al solito!
- Germini non faccia lo spiritoso, lo sa bene che sto qui ad ascoltarla solo per rispetto della memoria di suo padre, grande luminare, che se sapesse delle sue argute trovate notturne si vergognerebbe di lei...
- Eh... Mio padre...
- Bene, adesso per favore ritorni al suo lavoro, e non mi dia più l'occasione di ripensare a quanto è accaduto stanotte aggiungendo altre trovate creative a quelle che ha già saputo esprimere. E si ricordi che se ci beccheremo una denuncia per danni a causa di questa storia, la riterrò responsabile pienamente e da quel momento in poi andrà ad aiutare qualcun altro, glielo garantisco!
- D'accordo, d'accordo, adesso vado.
 
Alberto si alzò, prese la porta e uscì richiudendola dietro di sé con calma. Si fermò nuovamente appena dietro la porta stessa, guardò in alto e pensò a quei numi tutelari invocati qualche minuto prima: - Grazie papà!
Poi fece altri due passi in avanti, verso la finestra che dava proprio sul giardino, muto testimone della strana attesa della notte precedente. Qua e là, la neve, non ancora discioltasi, creava uno strano combinato di colori che lasciava una sensazione mutevole, di vaga disperazione e insieme di senso della vita, quella vita per lui estremo limite, confine di sacralità.
 
Non avrebbe potuto confessare al primario il vero motivo di quella attesa, quasi offensiva, fatta passare al defunto nel giardino. Non avrebbe capito. Sapeva che se avesse rivelato a qualcuno cosa credeva di vedere e sentire, lo avrebbero licenziato. E il dolore non gli veniva dal pensiero della solitudine di chi sa e non può condividere, o meglio non solo, ma dal fatto che non riusciva a distinguere sempre correttamente ciò che era la realtà di tutti, vista e voluta da tutti, e quella invece solo a lui riservata, che solo lui credeva di intendere e percepire. E in quella congerie di stimolazioni percettive, a volte si confondeva e perdeva il segno, e purtroppo insieme al segno anche la vita di qualche paziente. Cosa di cui si incolpava, per non esserne venuto a capo, per non aver agito, per non essere intervenuto come avrebbe voluto.
 
Suo padre un giorno gli aveva rivelato che lottiamo tutti i giorni contro la morte, e giochiamo con lei una partita a scacchi. L'unica strategia, la più triste opzione, è quella di allungare il più possibile la partita. La felicità invece è l'illusione di poterla vincere.
Nel ricordo di quelle parole, pronunciate molti anni prima da suo padre in un bellissimo giorno di maggio, mentre passeggiavano in un altro giardino, sentì profonda e dolorosa la sua mancanza.
Un padre, pensato sempre distante, si faceva vivo, ora, dentro, con forza e dolcezza, e alimentava un senso di orgoglio e disperazione per non essere stati in grado di capire in tempo, di amare in tempo, di onorarlo in tempo.
Forse lui avrebbe capito, oggi, la sua angoscia, la continua corsa nel tentativo di allungare la vita dei pazienti del suo reparto infettivi. Di perpetuare la loro partita a scacchi contro la morte, suggerendo le mosse più dilatorie, più efficacemente creative per la conquista di posizioni più vantaggiose. Suo padre, scrittore e conoscitore di anime, avrebbe capito e lo avrebbe aiutato ad accettare quella sua strana e terribile credenza, l'allucinazione di poter vedere la morte mentre attende accanto alle sue prossime vittime, di poter ascoltare le sue parole, di vederla impaziente di strappare un altro fiore dal giardino della vita.
 
Per quel morto lasciato in giardino non aveva né intercettato la figura della morte in attesa, né l'aveva udita bisbigliare la sua nenia annunciatrice. Per questo temeva che non fosse veramente morto. E, non avendo avuto modo di fare le sue verifiche, aveva sperato che forse la neve, che candida gli si posava sul viso, avrebbe destato nuovamente i suoi sensi.
Puro scrupolo insomma, creativamente abbozzato, per verificare che la partita a scacchi non fosse definitivamente perduta. Ma confessare a chicchessia voci, visioni, test creativi, per un medico e scienziato come lui, avrebbe voluto dire la fine della sua attività in quell'ospedale e forse in ogni altro ospedale.
Era preso a volte da un senso di vertigine quando pensava alla contraddizione della sua situazione e uscendone barcollando si ritrovava spesso a navigare su onde altissime di auto-ironico scetticismo. Un incontrovertibile senso di rifiuto, costruito in anni di studio e di professione, che emergeva come Atlantide nell'oceano della sua insicurezza spirituale.
 
Una voce nota, quella di Caterina, lo distolse da quei pensieri, ma riuscì a coglierne solo la parte finale:
- ... le vorrebbe parlare, cosa gli rispondo?
- Di chi sta parlando, mi scusi?
- Ma è sordo? Ripeto: il signor Bikila è di là nella sala d'aspetto dei familiari dei pazienti, la sala A se la ricorda? Le vorrebbe parlare, cosa gli dico?
Così, su due piedi, Alberto le rispose:
- Lo faccia accomodare nel mio ufficio e gli dica che arrivo fra cinque minuti.
Dopo un attimo però cominciò a chiedersi chi mai fosse questo signor Bikila.

Non ricordava alcun Bikila tra i suoi recenti pazienti. Non restava che andare in ufficio e chiederglielo. Così fece, andò nel suo ufficio, passò dietro il suo ospite inatteso, circumnavigò la sua scrivania e si sedette con curiosa attenzione davanti al Bikila:
- Buongiorno signor Bikila, Caterina mi ha riferito che voleva parlarmi, di che si tratta?
Bikila, occhi intelligenti in un viso nero e leggermente lanuginoso, guardò Alberto dritto negli occhi e cominciò a parlare con una certa timidezza:
- Dottore, ho voluto disturbarla per ringraziarla di aver salvato la vita di mia moglie.
- Ah Bikila, adesso la riconosco, lei era insieme a sua moglie ieri notte all'entrata dell'ospedale...
- Ieri notte non le ho detto che eravamo disperati perché Natel stava malissimo e nessun dottore era riuscito a capire cosa avesse. Ma poi lei ci è riuscito...
- Non ho fatto niente di speciale. Riconoscere la malaria fa parte del mio mestiere.
- Capisco che sia il suo mestiere, ma la verità e che lei era già nel parcheggio dell'ospedale quando siamo arrivati, l'ho vista. E poteva benissimo andarsene a casa, invece è tornato in ospedale dopo che ci ha visti entrare e ha deciso di tornare indietro. Così ha salvato mia moglie. Per questo sono qui, per ringraziarla e per lasciarle un dono.
- Non si preoccupi, Bikila. Mettiamola così: ho avuto un'intuizione.
- La prego accetti il mio dono, le piacerà. L'ho fatto con le mie mani, sono un ebanista.
 
Così dicendo gli porse una piccola scatola di legno con coperchio a scorrimento, elegante e semplice.
Alberto la prese, la fisso per qualche secondo, notò un piccolo intarsio molto raffinato sulla parte superiore del coperchio e si chiese da quanto tempo non riceveva un regalo così inaspettato.
Bikila non poteva certo immaginare che la vera origine dell'intuizione di Alberto, ma quando fece scorrere il coperchio per scoprirne il contenuto rimase stupito: un re, il pezzo più importante nel gioco degli scacchi, finemente lavorato e di legno scuro, era alloggiato nel corpo di velluto della scatola.
 
Per un attimo Alberto ebbe uno strano presentimento, guardò verso Bikila che sorrideva dolcemente compiaciuto della sua sorpresa, per coglierne il segno della consapevolezza, del segreto rivelato. Ma Bikila sorrideva semplicemente e volle spiegargli:
- Ci ho messo tanti giorni di lavoro per farlo, è il più bello. Quando sono rientrato a casa per recuperare dei cambi per mia moglie, ho sentito qualcosa dentro che mi ha spinto a prendere il re nero tra tutti pezzi che ho già realizzato, per portarlo con me. Quando, di ritorno, sono arrivato sulle scale dell'entrata dell'ospedale ho capito cosa dovevo fare ed eccomi qua.
 
Alberto avrebbe voluto chiedere a Bikila di spiegargli meglio di quella strana forza che lo aveva spinto a scegliere il re nero, ma il portatile di servizio che teneva nella tasca del camice cominciò a vibrare e dopo aver riconosciuto da chi proveniva la chiamata, rispose:
- Pronto, Caterina, mi dica.
- Dottor Germini, la paziente Anna Salini, la tossicodipendente nel reparto AIDS che abbiamo ricoverato la settimana scorsa, ha avuto una crisi molto seria poco fa. Credo che la cosa sia grave, serve la sua presenza.
- Vado immediatamente.
 
Alberto non perse tempo, sapeva che la situazione di Anna era compromessa sin dal momento del ricovero, ma non credeva sarebbe precipitata così velocemente. Già preso dal pensiero delle prime contromisure da adottare, si mise il re nero in tasca insieme al telefono, strinse la mano a Bikila, lo salutò lasciando la scatola di legno aperta sulla scrivania e prese di corsa la direzione del reparto AIDS.
 
Ricordò quando Anna era arrivata in ospedale.
L'aveva raccolta in strada un'ambulanza. Quel povero corpo era a pezzi. Alberto vide subito i segni della malattia e quelli della droga. La fece ricoverare, la fece lavare, vestire e la sistemò nel letto con la finestra che dava sul giardino. Anna, risvegliandosi qualche ora più tardi in quel morbido letto, guardò in direzione del giardino e si commosse. Quegli alberi, quel prato in attesa della primavera, nascondevano un segreto che lei non aveva capito. Dalla morte nasce la vita, ogni anno, in un eterno ritorno.
 
Alberto correva.
Presto si accorse di essere stanco, senza fiato. Affannato dalla corsa, dovette fermarsi per riprendersi. Era come se il corridoio si fosse allungato e procedesse in salita, una salita sempre più ripida, sempre più faticosa.
Quando finalmente decise di riprendere la corsa, si sentiva appesantito, stremato, senza forze. La stanza di Anna sembrava lontanissima, irraggiungibile.
Dopo un po', nuovamente allo stremo delle forze, alzò gli occhi e vide, sopra una porta che non riconobbe, il numero di stanza che cercava. Si guardò intorno alla ricerca di riferimenti noti: nulla di riconoscibile.
Improvvisamente, come davanti ad uno schermo che recupera, senza preavviso, il segnale perduto per la scarica di un temporale, si trovò nel corridoio di un altro ospedale, davanti alla porta della stanza dove era ricoverato suo padre.
L'angoscia di quel momento lo invase insieme alla rabbia di non aver saputo aprire bocca, di non aver fatto nulla per lui. Per un attimo si ribellò chiuse gli occhi e d'istinto entrò. Cercò suo padre, non lo vide. Avanzò verso il fondo della stanza. Un letto, un'infermiera che armeggiava, una donna vestita di nero appoggiata al muro vicino al letto a fianco della finestra. Se l'aspettava.
 
Alberto si avvicinò mentre l'infermiera che aveva dato l'allarme gli veniva incontro dopo averlo riconosciuto.
- Dottore, Anna la cercava e ho pensato di farla chiamare subito.
Alberto annuì col capo e guardando Anna si rese conto immediatamente della gravità estrema della situazione. Le prese una mano per farle sentire la sua presenza. Con un movimento delicato le carezzò il viso. Anna aprì gli occhi con grande fatica e con un filo di voce volle dirgli:
- Dottore, finalmente è arrivato. Sono stanca, mi sembra tutto così difficile.
- Non parlare, Anna..
- Dottore, non si dispiaccia, sono contenta che stia per finire tutto. Sono stanca di soffrire. Per tutta la vita mi sono avvelenata per fuggire la sofferenza, voglio fuggire anche adesso. Ci tenevo però a farle sapere che in questi pochi giorni, in questo letto, ho provato una gioia che non mi ricordavo da anni. Lei mi ha fatto capire, senza parlare, quanto belli sono i colori di quel giardino che si scorge dalla finestra. Sono i colori del mondo che io non ho voluto guardare, che non ho saputo accettare. E adesso che sono riuscita per un po' a tenerli qui, dentro di me, non ho più la forza di resistere...
- Anna, chiudi gli occhi, vedrai domani ci sarà il sole.
 
Ma Anna ormai non poteva più ascoltare. Se n'era andata e con lei la sua sofferenza. La signora in nero si staccò dal muro, si voltò verso di lui per un attimo e uscì.
Alberto lasciò la mano di Anna e la appoggiò al suo fianco, girò lo sguardo verso il giardino, poi lentamente prese il re nero dalla tasca e lo appoggiò sul comodino.

Leretico
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