Sui banchi una bambina «speciale»
La prima elementare della piccola bresciana affetta dalla «sindrome di Ondine»: cosa vuol dire andare a scuola avendo sempre a portata di mano un respiratore.

«E adesso... studiamo?».
A. si è appena seduta nel suo banco di prima elementare. Come i 18 nuovi compagni, appena entrata in classe ha cercato il suo nome, che le maestre avevano incollato al posto. La sua impazienza per il primo giorno di scuola era quella di tutti gli altri alunni.
Ma A. è una bambina speciale, una bambina bresciana diversamente abile, e la sua diversità la possiamo anche chiamare «unicità», dato che A. è affetta da una malattia rarissima, la «sindrone di Ondine» e che, dalla nascita, le impedisce di respirare autonomamente durante il sonno. In Italia ci sono 25 casi come il suo, 4 dei quali in Lombardia.

Nella notte agitata che ha preceduto il primo giorno di scuola, A. ha dormito come sempre con la sua «maschera», collegata al respiratore. Ma gli allarmi hanno suonato per tutta la notte: ad ogni movimento brusco della piccola che cercava di prendere sonno, i tubi e i fili tirati facevano scattare i sofisticati meccanismi che garantiscono il suo respiro.
Una notte insonne per la mamma, che è una mamma acquisita, un’infermiera che prima ha preso in affido la piccola A., che era stata abbandonata in ospedale, e ora l’ha accolta nella comunità familiare che lei stessa ha fondato. Ma questa è una storia lunga, e una mamma è mamma quando veglia per una notte intera, e per tutte le sue notti, sul respiro di una bambina.

A. dunque ha avuto bisogno del suo angelo custode terreno, oltre che di quello celeste, per arrivare viva ed emozionato al primo giorno della «scuola dei grandi». L’idea di andare alla «scuola dei grandi» era quella che l’aveva agitata.
«Mamma, non ci credo che sono diventata grande!», ha detto appena sveglia come un grillo, alle sette di mattina, davanti alla colazione. E insieme con l’entusiasmo per l’essere diventata «grande», anche la paura «di sbagliare le letterine».

«La maestra mi sgriderà se sbaglio?», ha chiesto A. prima di entrare nella scuola. E chissà come le è sembrato grande quell’edificio nuovo, un plesso nel quale ieri hanno fatto il loro ingresso per la prima volta altri due bambini che, come A., sono «bambini speciali, cioè diversamente abili», come suggerisce premurosa la sorella grande di A.
Il corredo di A. è uguale a quello dei suoi compagni, con qualcosa in più: oltre allo zainetto rosa corredato da quaderni, diario e astuccio, A. arriva a scuola ogni mattina col suo respiratore, che viene montato nella stanza accanto all’aula scolastica, pronto per ogni evenienza.

A. infatti potrebbe averne bisogno all’improvviso: una puntata febbrile, una caduta o altri eventi imprevedibili potrebbero farle perdere i sensi. In quel caso, il respiratore sarebbe la sua salvezza. In tre anni di asilo che A. ha regolarmente frequentato, è stato necessario ricorrere al respiratore per due volte.
A. viene seguita da una maestra di sostegno e da un’assistente ad personam. Sono molte le attenzioni che la circondano, e anche le maestre hanno accolto la bambina, consapevoli della sua particolarità. Ma la sfida è essere normali. I «nati due volte», come li ha definiti Giuseppe Pontiggia raccontando la storia di suo figlio disabile, sono una scuola per gli altri, un’occasione di rinascita.

Così, ieri per A. e per i suoi compagni è iniziata l’avventura della scuola. Un’avventura che A. ha voluto iniziare in autonomia, chiedendo e ottenendo di entrare da sola in classe. Una volta insediata al suo posto, ha esordito con quella frase - «e adesso studiamo?» - che esprime così bene la voglia di crescere, di diventare bravi, che hanno dentro i bambini.
Una volta tornata a casa, sfinita dall’emozione della giornata, alla domanda della mamma: «Allora, hai studiato?», A. ha risposto con una frase che andrebbe inviata per direttissima al ministro Fioroni: «No, mi hanno fatto giocare e disegnare».

Paola Carmignani dal Giornale di Brescia
0911Prima.jpg