Ascanio Celestini è «Pro Patria»
di Davide Vedovelli

Al Palabrescia, mercoled 22 febbraio, il nuovo spettacolo di Ascanio Celestini. E i lettori dello “Spaccadischi” entrano con uno sconto speciale.

 

Ascanio Celestini, oltre ad essere un abilissimo narratore, un attore unico nel panorama italiano e un intellettuale, è un carissimo amico. Se qualche d'uno di voi ricorda, pubblicammo, con l'associazione Il graffio, un libretto che raccoglieva una sua intervista dal titolo “Una storia di guerra, frittate e osterie”. Lo abbiamo poi ritrovato lo scorso anno come targato a Musica da bere 2011 sul palco del teatro Comunale di Vobarno. Ora sarà invece sul palco del Palabrescia con il suo nuovo spettacolo “Pro Patria. Senza prigioni, senza processi”. Proseguendo in un suo personalissimo percorso artistico e culturale, Ascanio Celestini affronta alcuni episodi salienti del 1849, anno in cui in Italia prende corpo il Risorgimento italiano. Attraverso questo nuovo progetto Celestini cerca di ricucire i fili della storia e di fare emergere quella scintilla intellettuale e politica che è nascosta in ogni persona.  Ebbene, grazie alla collaborazione con “Colpi di scena” tutti i lettori dello “Spaccadischi” che stamperanno il coupon che trovate come foto dell'articolo e lo presenteranno alla cassa del Palabrescia la sera dello spettacolo, avranno uno sconto sul biglietto d'ingresso. Un motivo in più, se mai servisse, per vedere Ascanio Celestini.
Un artista geniale e capace di affascinare con la sua capacità narrativa, che sa farti vedere la realtà sotto una luce diversa e te la spiega in modo chiaro ed inequivocabile. Capita spesso di vederlo, piccolo, magro e pizzuto, in qualche trasmissione televisiva raccontarci tramite storielle ( che sono metafore) la realtà che ci circonda. Il libro che pubblicammo con il Graffio raccoglieva un intervista fatta telefonicamente ad Ascanio e alcuni stralci della conferenza che lo stesso celestini ha tenuto presso l'Istituto Polivalente Perlasca di Idro. Per ragioni di spazio non mettemmo tutta l'intervista. Le domande, che vennero tagliate le trovate qui sotto. E' quindi la parte inedita dell'intervista che per tre anni è rimasta nel mio archivio e ora pubblico in anteprima per “Lo Spaccadischi”. Tutte le informazioni per lo spettacolo le trovate sul sito www.palabrescia.it

( risposte inedite tratte da un'intervista rilasciata al Graffio nel 2008)
(…) Parliamo di “Pecora Nera”. Il tuo teatro è un teatro che nasce da uno scambio e non da un autore che si siede ad uno scritto. Nasce attraverso un lavoro di ricerca e di conoscenza diretta di persone che quell'esperienza l’hanno vissuta sulla propria pelle. Come hai lavorato per mettere in scena “Pecora Nera”?
Per tre anni ho fatto interviste in giro per manicomi ed ex-manicomi ed intervistavo soprattutto infermieri. Nel momento in cui fai una ricerca gli devi dare un taglio specifico, non puoi intervistare tutti quelli che sanno qualcosa sull’argomento. Ho pensato agli infermieri perché sono quelli che sono più a contatto con i pazienti, che vivevano realmente nel manicomio, a differenza del medico che magari ci passava una volta al mese. Erano anche quelli che stavano molto fuori. Il paziente internato nel manicomio stava solo lì, invece l’infermiere stava molto dentro, ma anche molto fuori. Ho incontrato anche psichiatri e pazienti, ma ho raccolto soprattutto le storie degli infermieri perché erano anche quelle più concrete: loro erano quelli che stavano lì, che vedevano.
Questo è quello che ho fatto per tre anni, poi ovviamente la raccolta delle storie è diventata, nel scorso dei tre anni, una scrittura delle storie. A me raccogliere le storie di persone che hanno vissuto una certa situazione serve più che altro per scrivere una storia inventata  che sia non in contraddizione con le possibilità della storia vera. Per cui non è che “il Nicola”, protagonista della mia storia, è un ragazzino che ho incontrato, ma non è nemmeno uno che è impossibile incontrare. A me serviva trovarmi davanti all’istituzione manicomio e quindi trovarmi davanti alle persone che lo conoscevano e che l’avevano conosciuto e me lo volevano raccontare. Però poi io scrivo la storia, che poi possa servire come strumento per l’interpretazione della realtà, questo è una mia aspirazione, ma è letteratura.

Ti immedesimi o mantieni una certa distanza?

Sai, io racconto la storia, non è che penso di diventare Nicola, no. Questa idea dell’immedesimazione, dello straniamento, io credo sia molto artificiale e serve per capire uno stratagemma, un percorso, però io penso che nessun attore in scena si senta veramente Amleto, anche perché nel momento in cui muore io scapperei. Quando sento gli attori che dicono “Il bello di questo mestiere è essere tante persone diverse, vivere tante persone diverse...” a me sembra un’assurdità, penso che sia un vezzo. Il fatto di raccontarlo in prima persona è una maniera per avvicinare la storia, è un po’ come quando nel cinema, invece di vedere l’attore che si aggira in un ambiente in campo lungo e in figura intera, non vedi l’attore, ma gli oggetti che prende in mano, con la camera in soggettiva, ma questo significa che lo spettatore diventa un personaggio del film? No. Tanto più che non è una maniera per fargli sentire, provare quelle emozioni, anche perché noi sappiamo benissimo che succede solo nei pessimi film dell’orrore, in cui l’attore muore in soggettiva, e quindi la pistolettata gli viene sparata verso la camera; questo faceva paura ai tempi di Bronco Billy ai primi del ‘900 quando il treno arriva alla stazione e tutti gli spettatori scappavano.

Che spettacolo di teatro classico ti piacerebbe portare in scena ed attualizzare e qual è un testo classico che potrebbe parlare anche al pubblico di adesso?
Dipende dall’artista, da cosa lui trova in quel testo e da qual è il suo bisogno di andare in scena. Io non credo che un testo sia moderno, è la lettura del testo che lo è e poi per il teatro, il fatto stesso che ci siano degli attori vivi presenti in teatro… Shakespeare è morto. Tutti i testi, diciamo, sono vecchi, anche quelli che scriveremo domani, dipende da come viene portato in scena e non è un pensiero da intellettuale, è così proprio. Io ho visto per anni Beckett fatto in una certa maniera per cui mi ero convinto che “Finale di partita” piace a me, ma piace a me e basta. Poi ho visto “Finale di partita” fatto da Carlo Secchi e la cosa che stupiva era che non c’era nulla di diverso da quello che c’era scritto nell’opera di Beckett, non era neanche un messa in scena geniale, semplicemente tu capivi che quegli attori lì, quel regista, vivevano quel testo in maniera assolutamente contemporanea, cioè era il loro testo. E poi se ci pensi i testi di Beckett sono un po’ come una partita a scacchi che finisce patta, dove i pezzi non si riescono più a muovere perché ormai sono rimasti loro due in scena e  gli altri due sono stati mangiati.

Appuntamento quindi mercoledì 22 febbraio al Palabrescia. Stampate il coupon che trovate allegato come foto dell'articolo e presentandolo alla cassa del Palabrescia dite che fate parte dei lettori dello “Spaccadischi” ed avrete lo sconto indicato.
 

 

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