«Tuona il cannone allegramente...»
L’amore al tempo della Grande Guerra è malinconia di casa, il gelo in trincea, i prezzi sempre più alti al mercato... Il grande amore scorre sul filo di 400 lettere fra marito e moglie, fra l'ottobre del 1916 e il dicembre del 1917.

L’amore al tempo della Grande Guerra è malinconia di casa, il gelo in trincea, i prezzi sempre più alti al mercato. È consuetudine con la morte, al fronte e in città, quando i bambini non arrivavano all’anno e si moriva per un’infezione intestinale. È la raccomandazione di pagare l’affitto e di controllare i conti in banca, la confidenza della gente di montagna, la spavalderia di sfidare i cecchini. È la fitta corrispondenza, oltre 400 lettere, che Pietro Mascadri ed Elisa Guerra si scambiarono tra l’ottobre 1916, quando lui 29enne fu chiamato al fronte, e il dicembre 1917, quando trovò la morte in battaglia.

Pietro ed Elisa si erano sposati appena quattro anni prima, ed avevano già visto morire due figli in fasce. Elisa, che nel luglio 1917 aveva intanto dato alla luce la piccola Teresa, riuscì a recuperare la salma del marito solo nel 1922. Poco dopo morì anche lei. «Di crepacuore», si disse, a soli 31 anni. La corrispondenza tra Pietro ed Elisa è ora raccolta nel volume curato da Nicola Bianco Speroni - nipote di Teresa - per l’Associazione nazionale del fante, sezione di Odolo-Preseglie, che ha voluto così celebrare a 90 anni dalla morte la memoria di Pietro Mascadri, di Preseglie, unico ufficiale medaglia d’argento al valor militare in Valle Sabbia tra i fanti.

Ma sulle cartoline postali che i due sposi si scambiavano la guerra resta sullo sfondo, quasi che la reticenza possa esorcizzare fatica e ansie. Pietro è preoccupato della salute della moglie, s’informa sui conti di casa, le spedisce «un involto contenente un po’ di fumo che ti prego serbarmi per quando sarò borghese», le chiede di comprargli sempre «il Corriere della Sera e la Domenica del Corriere: fa in modo che al mio ritorno sia tutto in ordine e non ne manchi nessuno», quasi a convincersi che la fine della guerra e il ritorno a casa non siano lontani.

Lei lo informa: «Sono stata a riscuotere il tuo stipendio», e lo tiene aggiornato sui pensionanti che ospita nella loro casa in via Tagliaferri (ora contrada S. Chiara).
Gli raccomanda «le pratiche di pietà, e vedrai che nella preghiera troverai quel conforto che forse ti manca», prendendosi i suoi rimbrotti: «Non credo di essere un bambino allattante: io conosco abbastanza quali siano i miei doveri verso Dio».

Alla baldanza dei primi tempi («ho fornito i miei soldati di elmetti d’acciaio, e uno l’ho tenuto anche per me: se tu mi vedessi col cappello di ferro, somiglio veramente a un guerriero della storia antica») si sostituisce presto la nostalgia, che diviene ansia per le notizie che non arrivano («A Brescia cosa si dice della guerra? Finisce o non finisce: qui siamo all’oscuro di tutto»), irritazione per le lungaggini della posta, emozione nell’imminenza del parto («a quest’ora sei nuovamente madre! Mi struggo dal desiderio di sapere com’è andata la cosa») vissuto da lontano nell’attesa vana di una licenza che arriverà solo quando la piccola Teresa avrà due mesi.

Tra spostamenti di fronte che avvicinano sempre più Pietro alla prima linea («pare che tutti si debba partire verso il Carso»), il 22 novembre 1917 arriva il trasferimento accolto con senso del dovere e dell’onore («sono come vedi alla 2ª Comp. dell 77° regg.to fanteria di linea (...) È un reparto veramente glorioso al quale sono superbo di appartenere»).
Una settimana dopo la promozione a tenente («ho messo oggi il secondo filetto» comunica a casa). Il 4 dicembre l’ultima missiva: «Cara Sposa, mentre ti scrivo tuona il cannone allegramente senza però arrecare gravi danni. Ho trovato su questi monti un certo Dolci Bortolo di Odolo: è qui a fare il carbonaio: dice che conosce te e tutta la tua famiglia (...). Io sto sempre bene, come spero ed auguro a te e piccina. Abbracci affett. Tuo Piero».
Poi, l’incontro con il destino.

Giovanna Capretti dal Giornale di Brescia

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