La memoria del vero nella penna di Berselli
di Andrea Alesci

Con "Il piů mancino dei tiri" il giornalista e scrittore scomparso l'anno scorso ci porta dentro un campo da calcio che č specchio della vita di tutti i giorni; e lo fa sfidando ogni convenzione: senza l'appiglio di alcuna fonte

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Bastano poche ore per entrare dentro quel campo in forma di libro dove Edmondo Berselli ha ritratto la corsa del neroazzurro Mariolino Corso, l’indimenticata ala sinistra dell’Inter gloriosa che fu, quella di Acca Acca Uno, come il giornalista modenese definisce il mago Helenio Herrera.
 
C’è tanto calcio (niente a che vedere con l’elemento chimico), anche se del chimico alchimista Berselli ha la dote di saper interpretare le proprietà e le trasformazioni della materia. Di una sostanza che come nella traiettoria a foglia morta delle punizioni di Mario Corso compie una parabola alta sopra il terreno di gioco, ondeggiando nell’aria di altri temi per poi cascare di nuovo là, sul campo. Scorriamo le pagine con le movenze lente di un calcio che sta cambiando man mano si avvicina alla porta avversaria, di un’epoca che va dileguandosi nel’impalpabile bruma autunnale che avvolge una foglia cascante.
 
Così, il calcio diventa l’occasione per intercettare con quella parabola altri eventi, altri fatti di un medesimo Paese che pare afflosciarsi come una sfera cuoiata da mandare in pensione. Tutto sta nella corsa che Mario Corso comincia nella propria tre quarti, “l’uomo in più, il fantasista dal tocco magico, il primo violino che suona una melodia tutta sua mentre l’orchestra segue disciplinatamente lo spartito”, l’uomo che “ha portato a una perfezione ultraterrena il calcio di punizione a palombella”.Come terminerà quell’azione? Fra dribbling e finte in una storia italica, lo scopriamo sfogliando pagine che Edmondo Berselli ha scritto fidandosi come un Socrate moderno di quella gnosi che solo la memoria può legittimare come garanzia di sapere: un libro dichiaratamente ‘scritto a memoria’, senza oscuri lavori di documentazione, come nella pagina del volume dove lo storico Fernand Braudel è visto da lontano mentre all’ombra di una baracca compone, senza cibarsi di fonti, l’imponente “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II”.
 
Così rimangono aggrappati alla penna di Berselli pezzetti di  quell’Inter di Suarez e Corso, Herrera e Moratti, di quel 1964, di un anno (ma è quello l’anno, si chiede l’autore?) che vide un giovane Felice Gimondi far imbestialire Poulidour e andare a vincere la Grand Boucle, di un ciclista uomo contemporaneo di Romano Prodi, l’uno all’insaputa dell’altro. E la periodizzazione si scioglie subito, portando tutti sullo stesso campo: Woody Allen, Aldo Moro, Omar Sivori, Gianni Agnelli, Giulio Andreotti e Ciriaco De Mita, Alcide De Gasperi e Togliatti e la cuccagna della maggioranza come promessa di felicità per tutti dentro il tempo d’una lunga stagione di paventata necessità d’unitarismo. E poi Giampiero Boniperti e Gianni Rivera e quel concetto di bandiera che sventolando sventolando va negli anni logorandosi al vento di una specializzazione che si fa logotipo del modernismo.
 
Il libro avanza come l’azione partita ante-linea-di-centrocampo e il calcio è una copertina che riveste ogni nuovo accenno. Il pretesto per parlare di musica sfiorando nomi come Bob Dylan e Mina, e la letteratura di Carlo Emilio Gadda e l’avanspettacolo di Totò e l’autogol profetico di Comunardo Niccolai, poi i filosofi Walter Benjamin e Jacques Derrida e ancora il calcio con l’aura mitica del paron Nereo Rocco; e poi tanti altri personaggi che pare impossibile rincorrere nei ricordi zeppi immaginati da Berselli.
 
Così possiamo soltanto seguire nel vorticoso agitarsi di una memoria trasformata prodigiosamente in graffiante ritratto d’inchiostro quella scia impercettibile che il pallone condotto da Mario Corso lascia sul verde prato di uno stadio d’Italia. Quella scia che serpeggia come una melodia di jazz improvvisata, portando tutti alla scoperta di un sottile intreccio, di una trama che lo stesso Edmondo Berselli schernisce con il supremo  potere delle divagazioni, di un libro sui generis, d’un genere senza genere, istinto mnemonico e per questo ineffabile, inatteso gesto che ad ognora può sorprendere con il più mancino dei tiri.
 
“Il più mancino dei tiri”, Edmondo Berselli, 2006, Mondadori, collana Piccola biblioteca Oscar, pagine 125, euro 9.
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