L’Alfredo
di Pino Greco

Lo sguardo di Pino Greco sulla Valle Sabbia di quelli capaci di penetrarla fino in fondo. In questi giorni si posato su Alfredo Bonomi, che va in pensione.

Prima al Polivalente dove ha concluso la sua carriera di preside, poi a Vobarno dove a rendergli omaggio per i quarant'anni di servizio alla comunità sono state le istituzioni, non sono mancate le manifestazioni di stima nei confronti di Alfredo Bonomi. Che quest'anno va in pensione.
Un traguardo che certo non sancisce l'abbandono da parte sua dell'impegno attivo nella società cui appartiene e che gli appartiene (ci aspettiamo semmai il contrario ora che se è possibile è ancora più libero di esprimersi), che segna però un passaggio importante.
Sarebbe ora, insomma, di dire e di scrivere quello che Alfredo è stato per la "sua" Valle Sabbia, o almeno di cominciare a farlo.
Compito tutt'altro che semplice.
Abbiamo chiesto una mano (una penna) a Pino Greco, anche lui uomo di scuola e non solo di scuola, che Alfredo l'ha conosciuto a fondo e a lungo.
Pino era presente fra gli altri amici e colleghi di Alfredo a Vobarno.
E ci ha mandato questo scritto.
Ubaldo Vallini

 
Situazioni così ne ho vissute tante.
Convegni, assemblee, celebrazioni. Gente assiepata dalla terza fila in su e lui sempre davanti, in prima fila. La postura poi è sempre quella: assolutamente composta. Forse un po’ rigida.
Look sorvegliato: completo di buon taglio e cravatta a tono. Sguardo assorto. Eppure…ma certo: l’agenda! Manca l’agenda posata sulle ginocchia. E quella stilografica incessante che annotava, sottolineava, riquadrava. Magari  avvicendata da una inconsueta  biro rossa. Ne ho viste passare decine di agende. Forse un centinaio. Una sorta di data-base recondito a supporto di una memoria di per sé prodigiosa. Una sorta di alter ego a cui affidare la codificazione di avvenimenti, osservazioni, proposte e  temporanei attori di incontri e confronti su argomenti proposti dalla politica, dalle agenzie  culturali, dal mondo dell’educazione.
Si fa fatica a immaginare l’allocazione ordinata di tutta quella roba, un po’ meno se si conosce la vocazione archivistica dell’Alfredo. Già, l’Alfredo Bonomi. Protagonista di un serata che ha riunito nella biblioteca di Vobarno mezza valle, fra presidi, docenti, sindaci e manager pubblici e privati. Un commiato istituzionale  per chi va in pensione dopo aver insegnato e diretto in Valsabbia per quarantacinque anni.
Ecco perché non serviva l’agenda. Stasera le parole non sono paragrafi o capitolati normativi. Sono un distillato di emozioni da centellinare in una beatitudine fugace, ma definitiva. Sono la sanzione di un riconoscimento lievitato nel tempo fra la gente delle istituzioni. Fra migliaia di alunni e famiglie. Fra i suoi colleghi presidi.            Mi chiedo quali ragioni  inducano a percepirlo come una specie di capostipite, come un archetipo identitario di una sequela di dirigenti che da Casto e da Vestone è poi rifluita nei centri della valle. Per quanto mi riguarda ne rintraccio due: la stima e l’amicizia.
 
Ci siamo conosciuti una mattina nebbiosa di  ottobre. Nel 1972. Nell’atrio della media di Vestone. Faccia serena da seminarista e mani robuste da montanaro. Rassicurante. Accanto a lui c’era  Aldo. Il Vaglia. Barbaccia cubana e l’Unità piegata nella tasca dell’eskimo. A ripensarci, in pochi metri quadrati avevo stabilito un contatto con i due poli esistenziali e culturali del mio percorso valligiano.
Con l’Aldo, di lì a poco avremmo messo in piedi la sezione comunista, riorganizzato il sindacato e perfino conquistato il Comune nel mitico ’75. Avremmo condiviso,  negli anni, esaltazioni e sconforti, cortei e funerali, ebbrezze conviviali e avversità familiari. Praticamente fratelli.  Di più, compagni.
Con l’Alfredo avrei infranto le barriere che, nella turbinosa militanza giovanile nel paese più rosso d’Abruzzo, mi avevano impedito di conoscere il mondo cattolico al di fuori di schemi e pregiudizi. Generalmente negativi. Diciamo che fu l’incontro di due tolleranze e di due curiosità. Per l’altro. Il diverso.
 
Il mio background aveva le stimmate del paese-fabbrica, delle occupazioni, della celere, dei minorati intossicati dal cloro, dell’yprite, delle discriminazioni per i figli degli operai. Niente pulmino per la scuola. Niente tennis. A Santa Barbara, tiro alla fune e corsa delle carriole, mentre ai figli degli impiegati  paste  alla crema  insieme  al Vescovo e i signori al Circolo. Ecco, diciamo che io mi portavo dentro delle rabbie proletarie e dei radicali  risentimenti per i democristiani di casa mia, invariabilmente ascari delle prepotenze padronali e opportunisti alla rincorsa di una nomina a capoturno,  di un alloggio popolare, di un posto per il figlio diplomato.
Con Alfredo scoprivo che l’elegia paesistica delle Pertiche, con i prati, le corne e gli squarci di cielo, erano un fondale mistificatorio per la dura fatica delle fienagioni su pendii scoscesi, per l’alea dei raccolti affidati alle nubi e alle tempeste. Per la perdurante ingerenza di affanni, ristrettezze, privazioni.
 
Certo non c’erano padroni, ma c’era il dominio dispotico della natura. Dalla frana che precipita al torrente che tracima, al tetto che viene giù per la neve, all’incendio che si propaga maligno, alle pestilenze che sistematicamente riempivano di croci i piccoli cimiteri e di ex-voto le nicchie delle cappelle.
Le famiglie erano piene di braccia, ma nel numero erano comprese  disgrazie, patologie comportamentali e guasti della consanguineità. Tutti  travagli da affrontare con rassegnazione cristiana, contando sulla fede e su un intervento della provvidenza. Impensabile un sindacato, superflue le ideologie, il welfare era assicurato dall’onnipresente partito mamma, la Democrazia Cristiana, e da una rete estesa di piccole mutualità, banche popolari, enti caritatevoli, ricoveri misericordiosi. La generosità sostituiva il diritto e, delle lotte, neanche a parlarne. Tuttavia l’Alfredo non mostrava sconcerto quando io rivendicavo decine di imputazioni raccattate nelle lotte  fra il ’68 e l’autunno caldo. Per adunanze sediziose, blocchi stradali e ferroviari, cortei non autorizzati, resistenze a pubblici ufficiali… Mostrava comprensione. Forse anche un tacito apprezzamento per quei gesti che a lui erano preclusi dall’educazione alla mitezza e dai convincimenti religiosi.
 
In fondo anche lui aveva patito le discriminazioni del montagnì, supposto come inadeguato a competere negli studi e nella professione con quelli di città. Obbligato a centuplicare gli sforzi per risalire la china della diffidenza e dell’alterigia altrui. Intelligenza e volontà lo avevano sospinto in cima, ma quel graffio è rimasto. Lo rivelano certe sottolineature di affermazioni e successi, enfatizzati con puntiglio e un sottinteso risentimento per la varia compagnia di scettici e denigratori.
Anche a scuola ci teneva a marcare il territorio delle sue competenze. Per la verità cospicue. Ma da colleghi si collaborava. Anzi, non mi dispiaceva  attingere alla sua esperienza già maturata sul campo. Ci accomunava la predilezione per le buone letture e per le più diverse espressioni dell’arte, per la funzione formativa di storia e geografia e per un approccio non assillante con i garbugli morfologici e sintattici. In ogni caso gli alunni, proprio come oggi prescrive la pedagogia più avveduta, erano delle persone e le loro famiglie un sussidio confortante per l’azione educativa.
Certo, qualche volta occorreva distinguersi. Spesso nell’adozione, che so, di un’antologia, quando io brigavo per quella dove, tra fischi del vento e urla della bufera, bisognava andare a “conquistare una rossa primavera”. Mentre lui inclinava per la conquista di “una bella primavera". Ma erano schermaglie, non conflitti. E poi lui a un certo punto mollava. Magari solo per stupire il conformismo bigotto che allignava nei collegi docenti. O forse perché la solidità monolitica del contesto poteva pur tollerare una concessione marginale alle smanie di indottrinamento di qualche insegnante comunista.
 
Nel giro di tre o quattro anni ha avuto l’incarico di preside. Non è cambiato nulla. Anzi gregarismo ed emulazione ci spingevano a dare il meglio per non creare problemi all’amico che aveva la responsabilità della baracca. Anni di entusiasmo, di impegno e di sperimentazioni inusitate. Laboratori sui quotidiani, sul fumetto, sulle vecchie fucine, sul teatro dialettale, ma anche sciamannati tornei di calcetto alunni- professori, senza limiti di tempo e di fair play. Escursioni verso ogni meta che fosse raggiungibile scarpinando di lena. Ristori senza merendine e succhi di frutta, ma a base di tostissime carbonare. Sbaraccate per soli adulti da Luciano, in val Duppo, benedette dall’immancabile vin santo di don Ottorino.
Poi c’erano le gite. Tre, quattro, cinque giorni. In tutte le città d’arte del centro e del meridione, a conoscere realtà ignorate dall’immaginario dei popoli che più tardi qualcuno avrebbe chiamato padani. Si preparava a puntino su testi, guide turistiche, semplici depliants. E così, oltrepassato il Po, ogni poco recuperava il microfono per un lezioncina estemporanea. Sui frutteti ordinati della Romagna. Sulle gobbe arrotondate degli Appennini. Sui borghi delle marche spartiti fra un costone eminente e il bagnasciuga adriatico. Sui casolari toscani incastonati fra vigneti e cipressi. Sugli sconfinati  uliveti della Puglia.
 
Nelle città dilagava. Un profluvio di dati e riferimenti su artisti, monumenti, signorie e personaggi illustri . Ma senza iattanza. Con quella modulazione didascalica che andava bene per primini e per professori moderatamente acculturati. Un riguardo particolare quando nel gruppo erano compresi i genitori. Non gli pareva vero di ostentare quel patrimonio di conoscenze al popolo terra-terra  dei capannoni, dei SUV, e delle ville al lago.
Fuori della scuola ci si vedeva poco. C’erano il Comune, la Comunità, i Lions, le fondazioni prestigiose di città. Non era un esagitato, ma aveva un cursus honorum già tracciato da percorrere sistematicamente, attento ad allacciare le relazioni giuste  e scansando le trappole della politica. Una predestinazione scontata per appartenenza partitica, per probità familiare, per studi, cultura e sapienza comunicativa.
Ma certi pomeriggi sciolti si perlustrava la valle, in lungo e in largo. Si girava per pievi, parrocchiali e sagrestie, ma non erano raid devozionali. Le chiese erano un deposito di eccellenze. Nelle arditezze architettoniche, nel fascino lussureggiante di quadri ed affreschi, negli altari cesellati, negli stucchi dorati. Perfino nel carisma garbato di certi parroci di comunità esigue, ma di insospettati orizzonti culturali. Come il mitico Don Giovanni di Auro.
Si girava anche per santelle. Comprese  le più derelitte. Ognuna con dietro una storia intrigante. E un auspicio di interventi restauratori. Capitammo anche  a profanare la quiete stagnante e ammonitrice del santuario di Barbaine .
 
Poi c’erano le dimore signorili, i balconi trompe  l’oeil  di Bione, i ruderi di Levrange, il leone di San Marco sotto un tetto di Alone. C’erano le fontane di Bagolino, i silenzi stranianti di Bisenzio, il maglio del rame a Lavenone, la cascata dell’Acqua Bianca sotto la maestà della Corna Blacca.
In ogni caso in tutte queste ricognizione lo stupore più grande era per la scoperta delle convalli. Ecco, le convalli. Piramidi rovesciate appiccicate al fondovalle da un torrente, da una strada, da un fenditura nella roccia. Poi orizzonti che si aprono alla luce e alle opere degli uomini man mano che si risalgono pendii e tornanti. Fino a impattare nella strepitosa prominenza delle corne. Cattedrali impressioniste che catturano e rifrangono il sole tra creste, pinnacoli e valloni.
Le Pertiche sono due convalli. Una guarda a sud est, l’altra è rivolta a nord est. Quella dell’Alfredo si chiama Pertica Bassa. Un comune. Cinque paesi. Seicentonovantotto abitanti.
Un giorno, forse vincendo una ritrosia recondita, mi invitò nel suo sancta sanctorum. La sua casa  di Avenone. Oli, acquerelli, stampe di ogni epoca, affreschi staccati da qualche sagrestia, sculture in metallo, legno e terracotta, diplomi e attestati, attrezzi contadini, cartoline da ogni parte del mondo, una inquietante esposizione di chiavi, di ogni foggia e misura. E libri. Libri allineati, libri accatastati, libri sparsi su sedie e sgabelli.  Libri aperti e sottolineati fittamente in rosso e blu.
 
Ma, soprattutto, il centro di gravità del suo universo affettivo. Una madre anziana, ma viva. Levigata dal gelo e dal sole. Ma dallo sguardo fermo e morbido. Una madre premurosa, ma risoluta. Discreta, ma arguta. Una madre che aveva cresciuto uno stuolo di figli. Avviandoli agli studi e alle professioni . Una donna devota e timorata, ma pronta ad accogliere sbandati e partigiani di altre fedi, confini e ideologie. Una madre che non dissimulava una predilezione per il suo fragile settimino, cresciuto fra la polvere dei libri piuttosto che fra i boschi di larici e castagni.
Dall’incontro di quel giorno, mi sembrò di recuperare il codice per penetrare la cortina del riserbo di Alfredo. Per conoscere l’essenza di un temperamento che era la cifra stilistica dell’amico, del preside, del politico. Una volontà di acciaio rivestito di morbido burro. Il burro dell’accondiscendenza, della comprensione, dell’humor, dell’indulgenza e della illimitata disponibilità.
A metà degli anni ottanta, trasferimento a Vestone. Non fu più la stessa cosa. Avevamo imparato a cavarcela, ma il susseguirsi di Presidi da fuori ci convinse a cambiare aria. Nel giro di qualche anno io, Rino, Valerio e Andus partimmo per altrettanti incarichi in valle e altrove.
Diradarono le occasioni di incontro. Ci si trovava più facilmente  a Brescia in mega adunanze per dirigenti. Certe telefonate estemporanee per capire l’ultima circolare si allargavano fatalmente ad una ricognizione su figli, salute, viaggi, acquisti di quadri e tappeti, nozze e separazioni nel giro degli amici. Provvidenziali capitavano perfino i funerali. Qualche matrimonio. E poco più. Ma non ci si è persi mai di vista.
 
Del resto Alfredo aveva raggiunto importanti incarichi istituzionali, con il corredo di una insistente e intrusiva esposizione mediatica. In fondo di lui si sapeva tutto. L’avvicendarsi di presidenze. Il destreggiarsi fra gli schieramenti. Il black aut del ’92 con lo sgretolarsi della DC e l’esaurirsi di quel percorso che tutti si pronosticava arrivasse prima o poi a Roma.
Gli anni che seguirono furono la tenace riconquista di una preminenza che, negata dalle urne, fu conclamata in decine e decine di convegni, simposi, mostre, inaugurazioni di musei e restauri di opere d’arte. Il Bonomi come relatore enciclopedico per ogni aspetto rimarchevole della storia culturale e artistica della valle.
E poi  non c’è artista, scrittore, pittore, scultore, che non sia passato dal Bonomi per una presentazione, una recensione, una segnalazione su pubblicazioni e bollettini comunali . Credo che non si sia mai negato. E non per una mania presenzialista. Semplicemente perché il mondo dell’arte è sempre stato un richiamo irresistibile. Sia quello alto, sia quello popolato dai mille epigoni che, deragliando dall’opacità e dal piattume, cercano di cogliere una favilla di creatività impiegando una laboriosa e onesta manualità.
L’ultimo approdo è stato il Polivalente. Il Polivalente è una sua creatura. Conosco bene la storia. Una vicenda che risale a una trentina d’anni fa e che vedeva la valle spaccata. Alfredo su e tutto il resto giù. Alla fine ha vinto lui.
 
In fondo il Polivalente rimane una stupenda anomalia, concepita più per soddisfare un’utopia che per dare corpo a un progetto strategico e funzionale. Fin troppo facile, all’epoca, preconizzarne il fallimento. L’hanno fatto in molti. Non è avvenuto. Si resta stupefatti, oggi, nell’osservare l’assortimento delle attività e quello degli interessi suscitati tutt’intorno, fra i giacimenti e i fermenti culturali della valle. Il merito va a quei presidi che nell’ultimo decennio sono arrivati al Polivalente per lasciare una segno. In particolare all’Alfredo.
Metabolizzati gli insuccessi elettorali ci voleva una scuola complessa, impegnativa, per restituirgli il gusto della dirigenza. Nella dimensione umana, con la gestione di un personale numeroso e variegato. Sotto l’aspetto tecnico-professionale, con l’amministrazioni di risorse  non sempre adeguate, per realizzare progetti e interagire con il territorio. Come dire: pane per i suoi denti. Senza contare una complessiva serenità che offriva tempi più agevoli per far rivivere antiche frequentazioni.
Negli ultimi anni, purtroppo, m’è capitato di rado di sedere nel suo mega ufficio di Idro Le occasioni non sono state sprecate . Fascicoli richiusi, interni avvertiti e cellulari spenti. Mezz’ora. Magari un’ora intera. Comunque proficua. E non per l’elevatezza degli argomenti, bensì per le suggestioni che scaturivano anche dal più banale dei “ti ricordi?”. Alfredo aveva quella particolare attitudine all’ascolto che disarma ritegni e diffidenze, assecondando la confidenza che aiuta a vuotare il sacco. In pratica un confessore laico alieno da biasimi e censure. L’opportunità di ricevere pareri e ammonimenti da una persona fidata. Da un amico.
 
Ci pensavo giovedì quando, tenendo il microfono tra le mani giunte, gli occhi rivolti in alto, Alfredo ha salutato e ringraziato i presenti.
Quarant’anni fa ci si scherzava su quell’aplomb da monsignore.
L’altra sera, il viso asciugato e intenso, le mani più affilate, l’intonazione pacata e allusiva, gli conferivano una ieraticità squisitamente cardinalizia.
 
S.Felice d.B.  Pino Greco
 
 
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