«Caro don Carlo»
Gioved 17 dicembre alle ore 20.30, presso la sala conferenze del Centro sociale di via Pialorsi in Vestone, sar presentato il volume dedicato all’ottantesimo anniversario di fondazione del Gruppo alpini di Vestone.

 
Una strenna natalizia che conclude degnamente il 2009, che ha visto il gruppo delle Penne nere vestonesi festeggiare gli otto decenni di costituzione con l’importante adunata del luglio scorso e l’intitolazione dell’Auditorium comunale alla memoria dello scrittore Mario Rigoni Stern.
Presentiamo in anteprima ai lettori di “Vallesabbianews” un brano del volume: si tratta del colloquio a distanza tra due vecchi reduci della tragica campagna di Russia.
 
Nel 1999, dieci anni fa, il sergente del Battaglione “Vestone” Rigoni Stern scriveva una lettera postuma al suo cappellano, don Carlo Gnocchi.
La missiva sotto riportata appare in calce all’edizione Mursia del libro di don Gnocchi “Cristo con gli alpini”.
 
Giancarlo Marchesi
 

Caro don Carlo,
tu non hai folle, non telecamere, non cerimonie pompose; non ti hanno fatto beato o santo, non hai fanatici che ricercano le sue reliquie portafortuna; per noi veci ella Tridentina sei solamente don Carlo, lo Gnocchi era in più.
Quando Beppo Novello, il pittore che era stato richiamato come capitano nel 5°, veniva a trovare questo vecchio sergente del 6° diventato scrittore, mi portava sempre tue notizie: «Sai Rigoni, don Carlo è sempre esile, ma ha ancora tanta forza che non so proprio dove va a trovarla».
Da poche parole, accenni durante le visite all'Ortigara, capivo come attorno a te qualche volta si ritrovavano i sopravvissuti della sacca del Don, come per ricreare quella fraternità da mensa in comunione.
 
Questi veci ti portavano un poco d'aiuto per il grande compito che ti eri assunto quando, dopo l'esperienza tragica di cappellano in guerra, ti eri messo a dar mano, nell'Opera don Orione, all'assistenza ai mutilati, a incontrare i familiari dei nostri caduti, a dare rifugio ai partigiani e ai perseguitati politici e, infine, ritornata un po' di pace, ad accogliere bambini e ragazzi mutilati o invalidi per curarli, assisterli, istruirli.
Così, tu prete, diventasti anche padre di una moltitudine di infelici.
 
E anche gli occhi volesti che alla tua morte fossero trapiantati su due ragazzi ciechi: quegli occhi che videro la lunga linea nera sulla neve della steppa continuano a vedere la primavera che sempre ritorna.
Oggi, qui nella caserma di Bressanone dove si trova il comando della Tridentina, avevano assegnato a me l'incarico di presentare la nuova ristampa del tuo/nostro libro 'Cristo con gli alpini' ma, per dirla in gergo, «un colpo di naia» ha disposto diversamente e qualche altro lo farà magari meglio di me.
 
Per quanto mi riguarda, faccio un breve rapporto. «I caduti non muoiono» scrivesti un giorno.
Non muoiono finché almeno noi li ricordiamo, e tu, per farli ricordare agli ignavi e agli immemori, ci hai lasciato questo libro sacro.
Cristo con gli alpini fu il primo libro che fece sapere agli italiani le vicende degli alpini in Russia; fece conoscere quello che le autorità di allora non avrebbero voluto fosse mai conosciuto.
Ancora nel 1943 «La Scuola», casa editrice di Brescia, aveva pubblicato queste tue memorie, ma fu la ristampa del 1946 quella che venne meglio divulgata.
 
Mai tardi di Nuto Revelli, ufficiale effettivo del Tirano e poi comandante partigiano, venne pubblicato qualche mese dopo e Il sergente nella neve era ancora manoscritto su fogli dentro un vecchio zaino.
Ricordo quella prima edizione con in copertina una croce su steppa nevosa e nel risvolto la riproduzione di una tua fotografia dove apparivi con un vecchio cappello di capitano degli alpini sopra un viso affilato dove tra tanta mestizia e sofferenza affiorava un sorriso che veniva da lontano: era l'immagine di uno che aveva visto tutto il male della terra e l'orrore della guerra, ma anche provato la dolcezza dell'amicizia e il segno della riconoscenza che veniva dai più umili.
 
Leggendo e rileggendo le tue pagine ritrovavo quei momenti e quei volti.
Tu racconti che nei giorni della grande prova, nei visi coperti di ghiaccio, nei moribondi sulla neve, nei morti in battaglia hai visto il volto del Cristo.
E come hai intuito quello che nessuno di noi ha scritto!
Hai detto: «Se qualcuno mi raccontasse di aver visto, nella sera del ripiegamento, un alpino attardarsi nel rifugio sotterraneo dove aveva trascorso le lunghe sere invernali, in pacati discorsi con gli amici, alla luce calda e palpitante della lanterna, a carezzare con lo sguardo triste, forse con la mano rude, le postazioni, le feritoie e le opere che gli erano costate tanta fatica a tanto ingegno, io senz'altro gli crederei. Poiché poca gente più di questa ama gelosamente e virilmente l'opera delle proprie mani».
 
E ancora: «In quei giorni fatali posso dire di aver visto finalmente l'uomo. L'uomo nudo, completamente spogliato, per la violenza degli eventi troppo grandi per lui, da ogni ritegno e convenzione, in totale balia degli istinti più elementari paurosamente emersi dalle profondità dell'essere».
«Eppure, in tanta desertica nudità umana, ho raccolto anche qualche raro fiore di bontà, di gentilezza e di amore - soprattutto dagli umili - ed è il loro ricordo dolce e miracoloso che ha il potere di rendere meno ribelle e paurosa la memoria di quella vicenda disumana».
 
Ma chissà quante volte, don Carlo, in quelle notti o in quei giorni ci siamo sfiorati.
Noi del 6° eravamo davanti a fare punta di rottura e dopo ogni battaglia si doveva riprendere il cammino per non permettere all'avversario di richiudere la porta appena aperta e così far proseguire nel varco la lunga colonna.
Tu, don Carlo, poiché non c'era il tempo né era possibile seppellire le spoglie dei nostri compagni, raccoglievi i piastrini di riconoscimento. E benedivi e assolvevi in articulo mortis noi che andavamo avanti.
 
A volte, nelle tue memorie di quei giorni, quando le ragioni dello spirito apparvero come steppa immane, il tuo essere uomo di grande fede e di profonda cultura ti prendeva la mano, ma il tuo spirito di uomo responsabile e di testimone ti fa scrivere: «Ma non è forse spietato quello che sto per dire? Non è bene che le madri ignorino per sempre la sofferenza dei loro figli? Eppure, se la memoria dei morti deve essere sacra e il loro sacrificio indimenticato, se qualche peso di giustizia deve avere per noi e per essi il sangue versato; bisogna pure che si sappia!».
 
Ciao, don Carlo.
Mi sembra di rivederti su un dosso della steppa, solo, staccato, affaticato, incrostato di neve e con una coperta sulle spalle tracciare con fatica un segno di croce su una larga fila di alpini in cammino e poi anche tu riprendere la strada.
Dopo tanti anni quella tua benedizione ancora me la porto addosso e spero mi giovi nell'ultima ora per farmi da lasciapassare verso l'ultimo presidio.
 
Tuo, sergente Rigoni della 55esima del Vestù, 6° Alpini, Tridentina.
 
 
091213Alpini.jpg