25 Aprile 2021, 08.50
Valsabbia
Blog - Maestro John

Voci di donne che resistono

di John Comini

Da bambino ho sempre ascoltato storie di guerra, di prigionia e di resistenza. Mi addormentavo con mio papà che mi raccontava la sua guerra, di quando era stato in Africa, in Albania e in un campo di prigionia in Polonia (mio zio Fausto era stato in un campo in Austria)


La domenica a pranzo spesso avevamo ospiti, come la signorina Gisella Franzosi da Salò. A lei veniva dato il posto d’onore a capotavola e noi 10 ci stringevamo un po’. Ci raccontava le storie vere dei partigiani: noi tutti in silenzio ascoltavamo, persino mia mamma si fermava accomodandosi su una sedia, lei che di solito preferiva servire tutti stando in piedi. La signorina Gisella raccontava di “Pippo”, l’aeroplano che di notte mitragliava ogni casa che avesse le luci accese.

Raccontava di quella sera del 22 marzo 1945, quando monsignor Luigi Ferretti, allora parroco di Salò, si recò all’ospedale a far visita al partigiano Renato Mombelli, che era stato catturato dai fascisti e medicato in ospedale per poter essere successivamente interrogato. Mentre la guardia si era allontanata, monsignor Ferretti lo avvertì che la notte sarebbero venuti i suoi compagni a liberarlo.

Raccontava che le donne avevano nascosto in casa il partigiano “Ferro”, ferito mortalmente. Alcune donne, recandosi alla Messa, fingendo di raccogliere il fazzoletto asciugavano le gocce di sangue sulla strada, per evitare che i fascisti scoprissero le tracce del nascondiglio. E la perpetua di Monsignor Ferretti, Catina Mosconi (poi a Gavardo ci sarà Alba Rivetta) aiutò uno dei partigiani a fuggire, tenendolo ‘a braccetto’ l’ha accompagnato fino alle Rive. Un capo dei fascisti minacciò la suora caposala dell’ospedale che, se non avesse fatto i nomi dei partigiani, l’avrebbe fatta camminare nuda sul lungolago. Ma la suora tenne fieramente testa al milite. Un fatto straordinario che mi ha ricordato mio cognato Gabriele: Catina Mosconi in quei tempi tragici ha aiutato anche molti ebrei a fuggire: si vestiva in modo elegante e nessuno osava fermare la perpetua del Monsignore. Che donne coraggiose!

Alle storie della signorina Gisella annuiva mia zia Giulia. Con il tempo, ho scoperto che, durante la guerra, portava lettere e documenti a mio zio Vittorio, nascosto dalle parti di Tenno. Andava da lui in bicicletta e poi saliva sul battello direzione Riva, e con grande sprezzo del pericolo superava i controlli dei posti di blocco. Mia zia raccontò questa cosa solo a guerra finita, non lo disse nemmeno ai genitori, perché temeva che qualcuno, anche ingenuamente, avrebbe potuto dirlo in giro.

Una storia incredibile l’ho letta nel libro “Vittorio Comini Un salodiano che amava il cielo” (liberedizioni). Si tratta del salvataggio di Angio Zane, partigiano con il nome di Diego, che viveva nascosto nella casa di Tenno, in una stanza la cui porta era mimetizzata da un armadio. In quella casa abitavano mio zio Vittorio e mia zia Rina. Qualcuno si era insospettito, con il rischio della fucilazione per i familiari che ne favorivano la clandestinità. Allora il padre di Angio, Francesco, proprietario della Cedrinca, concordò con Vittorio di trasferirlo nell’alta Vallesabbia, dove operava il gruppo partigiano delle Fiamme Verdi.  Ma ‘Diego’ voleva a tutti i costi portare con sé la ‘Beretta’.

Provvidenziale fu Vittoria, mamma di Rina. Nel forno di casa mise a cuocere due grosse pagnotte, che ritirò dorate e fragranti, in tempo per svuotarle della mollica e nascondere in una la pistola e nell’altra le pallottole. I due in bici passarono dal Lago di Garda al lago di Ledro a quello di Idro, fino a Nozza. Incorsero in un posto di blocco tedesco e a Ponte Caffaro s’imbatterono nella Guardia Repubblichina, ma i controlli non crearono problemi.

Sono tante le donne che, in quegli anni terribili, hanno aiutato i ‘ribelli per amore’.
Come Caterina Rossi Tonni, che nel libro “I giorni del Tesio” ha rievocato vicende legate alla Resistenza tra Serle, Paitone e Gavardo, con il marito Pietro Tonni e con Stefano Allocchio. Dal fienile sul Tesio trovarono rifugio e aiuto numerosi partigiani. “I ragazzi erano simpatici, ascoltavo i loro discorsi. Capii che il loro modo di vivere era frutto di una scelta eroica. Nessuno li aveva obbligati a fare una vita così grama. Solo una causa giusta li aveva portati a mettere a repentaglio la loro vita.”

Voci di donne stanche di guerra, di donne che aiutano…
- “Ho visto questi giovani che scappavano sulle montagne e lì ho percepito la necessità di un aiuto. Perché quando ta èdet le persune che le ghà bisogn el vé istintivo.”

- “Mi ricordo che siamo andati in bicicletta su in Degagna, con questo zaino a spalle. Poi la bicicletta si lasciava giù e si saliva a piedi. Ho sempre sotto gli occhi la visione di questi ragazzi, vicino a  un fienile, seduti su un muretto, che come m’han visto arrivare sembrava che arrivasse dio. Avevano gli occhi che luccicavano come stelle, a guardare così perché ci portavamo da mangiare.”

- “Sotto casa mia s’è fermato un camion e c’era su un tenentino tedesco che stava morendo e mia madre ha fatto il caffè e gliel’ha portato.
Perché di fronte alla morte, di fronte al male, non c’è odio che tenga, perché se si ha un ideale è giusto averlo, però non si deve infierire su un morto o su un ferito. E tanti, che fino al giorno prima erano stati con i fascisti han detto: ‘Ah set nada a portaga el cafè?! Ma lasa ch’el crèpe!’ ‘Ma perché? Ma è un essere umano, quando è indifeso è sempre un essere umano, perdinci!’ E gli ha dato il caffè.”

- “Si vedeva un mondo bello finita la guerra. Si immaginava che avrebbe trionfato la giustizia, che gli onesti sarebbero stati a capo di tutto. Ma poi c’è stato un ventennio che quasi si aveva vergogna a dire che si aveva fatto il partigiano.”

La mia amica e collega Sandra Bresciani mi ha fatto leggere gli scritti di Maria Lombardi, mamma del suo caro marito Anatole Giunchi. Nata a Ravenna nel 1917, è  stata una partigiana ed ha avuto il Diploma d’onore al combattente per la libertà d’Italia firmato dal Presidente Sandro Pertini. Gino, il marito di Maria, era stato inviato al confino a Ventotene. Nella primavera del 1981 Maria è stata intervistata dai ragazzi della classe quinta di Muscoline.

“Io ero una staffetta e coordinavo un gruppo di una decina di donne. Noi donne eravamo più forti e nelle cose pratiche più pronte a dare coraggio agli uomini, curarli e rincuorarli come se in ognuna di noi ci fosse la madre, la sorella, la figlia.

La Resistenza è partita dal bisogno di non essere oppressi in nessun modo e da nessuno. Siamo tutte persone con la propria dignità, ma soprattutto il più debole va aiutato. Così dovete comportarvi a scuola: aiutare chi è in difficoltà.

Quali erano i tuoi compiti?
Avevamo molte persone nascoste a cui dovevamo procurare le armi, il cibo e ciò che serviva loro. In questo ci sono stati d’aiuto i contadini e la gente comune quando, ad esempio, dovevamo trasferire un gruppo di partigiani da un luogo all’altro. Oppure, di notte, mentre c’era il coprifuoco, noi donne uscivamo ad attaccare i volantini dove si spiegava alla gente cosa stava succedendo, quali erano le responsabilità dei tedeschi, le loro rappresaglie, le barbare uccisioni di cui erano autori. Noi donne eravamo infiltrate tra i fascisti e i tedeschi per poter carpire delle notizie e mettere in salvo delle persone.

Sei stata ancora ricercata dai tedeschi o dai fascisti?
Sempre. Sono stata interrogata ventitré volte e hanno perquisito la mia casa nove volte. Gli dicevo quello che erano, non avevo paura: “Voi mi potete anche ammazzare, ma voi siete dei vigliacchi.” Io mi sono rifiutata di donare la mia fede d’oro al fascismo e per questo la segretaria del fascio venne a dirmi che avrei dovuto farlo per stare più tranquilla e soprattutto per non perdere il lavoro, ma io non cedetti. Il lavoro non lo persi per intercessione del parroco del mio paese, ma anche perché i miei datori di lavoro apprezzavano il modo in cui svolgevo il mio dovere.

E hai sopportato tutto?
Sopportavo, anche con le buone maniere perché la civiltà è la prima cosa che dovete apprendere. Io sono stata anche in galera e ne ho prese tante: mi hanno insultato in ogni maniera, mi hanno lasciato senza cibo e senza acqua, ma io non parlavo, facevo la “finta tonta” perché quando si prende un impegno non si può tradire. Poi, con un colpo di mano, la caserma è stata assaltata, io sono stata liberata ed oggi sono qui a raccontarvelo.

Perché ti hanno ricercato? Cosa avevi fatto?

Niente. Non ero d’accordo con loro. In fabbrica, i primi scioperi, li ho fatti perché mi davano tre lire e ne volevo tre e cinquanta. Lavoravo dieci ore al giorno in una fabbrica di gomma sintetica: era uno scantinato buio dove mangiavamo un pezzo di pane per tutta la giornata. Ho preso tante di quelle botte durante le manifestazioni: avevo solo tredici anni.

Con cosa ti picchiavano?
Con i manganelli. E te ne davano tante. Una volta sono incappata in una pattuglia di tedeschi. Allora io, che conoscevo molto bene la mia zona mi diressi verso gli acquitrini e i tedeschi dietro: loro si impantanarono. Io pensai “ciaoooo”.
Maria è morta a Bedizzole nel 2005. A lei è dedicato il Circolo ANPI.

Concludo con il commovente  racconto di Delfina Ruggeri, incarcerata a Canton Mombello.
“Lì c’era una vecchina, così per benino, così carina, pettinata com’era, colle sue pianelline, quelle ciabattine colla suola di legno. -Come mai sei qui?

Dice: -Io sono qui per questa ragione: io ho due figli prigionieri degli inglesi. Un giorno arriva giù un giovanotto alto alto e viene lì da me e non capisco quel che dice. Però dai segni che faceva ho capito che aveva fame, io gli ho dato da mangiare e ho pensato: io do da mangiare a questo giovane e qualche mamma darà da mangiare ai miei figli dove si trovano loro, e gli ho dato da mangiare. Poi lui è andato, sono venute le guardie e hanno arrestato mio marito perché avevamo dato aiuto a un nemico. L’hanno tenuto per molto tempo, però io ho continuato ad andare n caserma a dire che mio marito non c’entrava proprio, perché era a far legna in montagna, ero io che avevo dato questo aiuto.

E allora loro hanno detto: Ma non avevate visto in Comune che c’era scritto che non bisognava dare aiuto agli sbandati, che se si vedevano bisognava avvertire i carabinieri ecc. ecc.? Io ci vedo mica tanto, e poi io che sapevo che nel Comune c’era scritta quella roba li. Io sto in campagna, io non sapevo niente di tutto questo. Io gli ho dato da mangiare, ho fatto male? Io ho due figli che sono prigionieri e chi gli dà da mangiare ai miei figli, se volete che non si dia da mangiare agli altri? Allora mi hanno preso e mi hanno portato in caserma. Era sera, mi hanno fatto sedere lì in caserma, era un po’ freddo così di sera, uno dei militi ha detto: -Vado a prendere una coperta per coprirla, perché avrà freddo, e l’altro ha detto: -Ma sei matto? Se noi la trattiamo bene, dopo ci puniscono perché abbiamo trattato bene una che è denunciata.

E così han finito di discutere tra loro e la coperta non me l’hanno portata.
-Ma nessuno è venuto a interrogarla, a dire il perché, il percome?
Dice: -No, nessuno mi ha mai domandato niente e io sono qui. Il mio problema è questo: io ho un vestito d’inverno e un vestito d’estate. Se io devo stare qui, devo andare a farmi portare il vestito d’inverno perché ho freddo. Se vado a casa preferisco tenere questo che è pieno di pidocchi, così me lo levo, lo lavo e non li attacco nell’altro vestito. Ma se non mi fanno andare a casa, io muoio dal freddo, comincio già ad aver freddo. Poi sa, qui ci sono delle persone che io non ho mai conosciuto in vita mia. Sa che qui ci sono delle donne che dicono che hanno fatto all’amore con due uomini alla volta (erano delle prostitute), e lo raccontano a queste ragazzine che non sanno niente di queste cose. Io sono stata sposata ma una roba del genere non l’ho sentita mai nominare. Io allora ho chiamato queste due ragazze e ho detto: - Se non raccontate più queste cose a queste ragazzine, dico tre ave Maria alla Madonna per voi. Sa che loro si sono commosse?

Poi abbiamo saputo che c’era stato uno a interrogarla. Dopo un po’ siamo andate a sentire e lei ci ha detto: -È venuto uno e mi ha chiesto com’era e come non era e io ho detto come ho detto a voi, che ho dato da mangiare a uno così e così.
- E lui cosa ha detto?
- Ha messo la testa sul tavolo e si è messo a singhiozzare.”

Ci sentiamo la settimana prossima, a Dio piacendo
maestro John

Alcune testimonianze sono tratte dal libro “I gesti e i sentimenti: le donne nella resistenza bresciana” di Rolando Anni, Delfina Lusiardi, Gianni Sciola, Maria Rosa Zamboni, Luisa Passerini (Comune di Brescia)

Nelle foto:
1) La signorina Gisella con la sorella Elda e i nipoti Angio e Pippo Zane nel 1934
2) Primo Maggio 1945 a Vestone. Attorno all’auto mimetizzata (bottino della colonna tedesca alla resa di Nozza) da sinistra: le telefoniste delle Fiamme Verdi Lina (Paola Campetti) e Piera (Piera Sardi), due insorti del Gruppo Riccardo, Renato (capogruppo Carlo Mombelli), un altro insorto e, a destra, Riccardo (capogruppo Giulio Piero Ebenestelli). Foto tratta dal libro “Partigiani a casa mia” di Elisa Franzosi Zane
3) Caterina Rossi Tonni con sua sorella Teresa nel 1938
4) La maestra Sandra con la classe quinta elementare di Muscoline, nel 1981: accanto la partigiana Maria Lombardi



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