04 Marzo 2021, 08.00
La riflessione

Giornaliste al patibolo

di Franco Tarsi

Con l'8 marzo ormai alle porte ricordiamo quattro donne che hanno pagato con la vita la volontà di svolgere il proprio lavoro fino in fondo, consapevoli dei rischi che comporta, in situazioni critiche, la ricerca disinteressata della verità


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Molta strada resta ancora da fare sulla via della parità di genere.

La celebrazione della giornata mondiale della donna, lunedì 8 marzo, che ricorda le operaie morte nel 1911 nell’incendio scoppiato in una fabbrica di camicette di New York (123 più 23 uomini) è l’occasione istituzionale per riflettere sui progressi compiuti verso l’emancipazione femminile e su quanto invece non sia stato fatto.

Purtroppo, il fatto che siamo qui a parlarne - se tutti gli anni siamo qui a parlarne - è il segno paradossale delle persistenti manchevolezze sociali in un percorso che dovrebbe aver portato già da molto tempo progressi forse risolutivi, ma segno anche delle differenze in merito da Paese a Paese.

Sul fronte politico - e questo è un esempio fortemente significativo - ad una nutrita presenza femminile, nella storia recente, alla guida dei Governi nelle nazioni nordiche europee (Germania, Norvegia, Islanda, Finlandia, Gran Bretagna) corrisponde una vistosa latitanza in quelle meridionali. Ciò richiede, a sua volta, un’analisi approfondita, per capire se il fenomeno risenta di ostacoli sulla corsia femminile o non dipenda, piuttosto, da una carenza di autostima nelle donne riguardante le loro possibilità di affermazione.

Ma ci sono altri squilibri da sistemare, dalle disparità di trattamento uomo - donna sul fronte lavorativo al problema della violenza sulle donne, una piaga che si sta allargando a dismisura, alle valutazioni delle capacità femminili in ambito sociale. Per fortuna, sull’altra faccia della medaglia, troviamo - e gli esempi di questo tipo sono in crescita - affermazioni individuali o di gruppo, in ambito giuridico, scientifico, imprenditoriale, giornalistico. Ed è da quest’ultimo settore che vorremmo iniziare un'incoraggiante analisi delle competenze, delle capacità e soprattutto della volontà di cui sono portatrici le donne: sì - sorpresa - anche le donne!

Forse non c’è un’altra categoria lavorativa in cui le donne siano esposte, alla pari degli uomini, a fatiche, disagi e rischi come quella delle giornaliste. Forse quanto e più delle poliziotte e delle soldatesse. Eppure i loro nomi si conoscono solo quando incontrano il loro destino, come se fossero delle vittime designate, nella fattispecie quando vengono uccise.

Ci ricordiamo (forse) tutti di Ilaria Alpi, ma soltanto perché le indagini sulla morte della giornalista di Rai 3 sono durate più di vent’anni e ogni tanto se ne parlava, e se ne parla tuttora. E sono durate più di vent’anni perché gli inquirenti non sono mai arrivati alla soluzione di un caso che resta senza colpevoli.

Eppure i colpevoli ci sono, perché Ilaria Alpi è morta. Non sappiamo chi l’ha uccisa, ma almeno ricordiamoci il suo nome e perché è morta. Questo è lo scopo di una sintetica narrazione che accomuna, e lega, quattro donne in un destino tragico.

Quattro donne che per fare il loro lavoro, per farlo al meglio, non hanno esitato ad affrontare i pericoli che comportava, senza nascondersi, senza tirarsi indietro di fronte al loro dovere, che fosse lavorativo o che fosse una loro pulsione personale. Senza tirarsi indietro di fronte a minacce e rischi di cui erano perfettamente coscienti. Rischi che potevano arrivare alla morte. E per loro quello è stato l’esito: la morte!

Ricordiamoci di queste - sì, diciamolo pure - eroine, del loro impegno civile nella ricerca della verità a tutti i costi, e soprattutto del loro coraggio di giornaliste e di donne. Sono, e devono essere, un esempio per tutti. Professionale ma soprattutto di vita.


Ilaria Alpi

Ilaria Alpi (Roma 24 maggio 1961 - Mogadiscio 20 marzo 1994) era una giornalista del TG3. Inviata in Somalia per seguire la missione “Restore Hope”, destinata a pacificare il Paese dopo la caduta del Presidente Siad Barre, la Alpi aveva avviato un’inchiesta su un presunto traffico di rifiuti tossici, prodotti nei paesi industrializzati e finiti in Somalia, in cambio di tangenti e di armi per i gruppi politici locali, traffico nel quale sarebbero stati implicati agenti dei servizi segreti italiani.

La sua iniziativa è finita male, perché la Alpi è stata uccisa nella capitale somala, in un agguato, assieme al suo operatore Miran Hrovatin (Trieste 1949 - Mogadiscio 20 marzo 1994). Un agente del Sismi, Vincenzo Li Causi (Partanna 1952 - Somalia novembre 1993) sarebbe stato un informatore della Alpi proprio relativamente al traffico armi e rifiuti tossici.

L’inchiesta sulla morte della giornalista e del suo operatore aveva inizialmente portato alla condanna per omicidio di un somalo (Ahmed Hassan), poi assolto, nuovamente dichiarato colpevole in un secondo processo di appello ordinato dalla Corte di Cassazione e condannato a 26 anni. Ma dopo 17 anni di prigione Hassan fu definitivamente prosciolto, nel 2016, per non aver commesso il fatto, in una revisione del processo nella quale fu chiesta l’archiviazione “per l’impossibilità di accertare l’identità degli assassini e il movente del duplice omicidio”.

A conclusione di una intricatissima e ramificata vicenda investigativa e processuale, non si sa ancora perché Ilaria Alpi e Miran Hrovatin siano stati uccisi. Come una tomba senza corpo. A Ilaria Alpi è stata dedicata una targa dell’Ordine dei Giornalisti di Torino e sono stati intitolati il Liceo linguistico di Cesena e la Scuola secondaria di primo grado dell’Istituto Comprensivo Chiavari 2.


Maria Grazia Cutuli

Maria Grazia Cutuli (Catania 26 ottobre 1962 - Sarobi, Afghanistan 19 novembre 2001) era una giornalista del Corriere della Sera, assunta prima con quattro contratti a termine dal luglio 1997 e poi a tempo indeterminato dal luglio 1999. Collaborava con l’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati.

La Cutuli era stata inviata in Afghanistan dopo gli attentati dell’11 settembre a New York e lì ha trovato la morte, il 19 novembre 2001, in un agguato assieme ad un inviato del quotidiano spagnolo El Mundo, Julio Fuentes, e a due giornalisti dell’agenzia Reuter, l’australiano Harry Burton e l’afghano Azizullah Haidari.

La sua ultima corrispondenza, pubblicata dal Corriere lo stesso giorno della sua morte, riguardava la scoperta di un deposito di gas nervino nella base di Osama Bin Laden. Della morte della Cutuli, uccisa da due colpi di arma da fuoco nella schiena, e dei suoi tre colleghi, furono accusati tre afghani: uno, Reza Khan, condannato a morte e fucilato nell’ottobre 2004, gli altri due, Mamur e Zan Jan, condannati a 24 anni di reclusione, confermati in appello nel 2018.

Ufficialmente la morte della giornalista siciliana è stata attribuita ad una rapina, ma la scoperta del gas nervino lascia aperti altri scenari, ben più inquietanti. La Cutuli è stata insignita alla memoria del premio giornalistico Città di Milano e del premio giornalistico nazionale “Maria Grazia Cutuli - per non dimenticare e per costruire la pace”. Aveva 39 anni ed era in forza effettiva al Corriere da appena due anni.


Anna Politkovskaya

Il 7 ottobre 2006 veniva commesso a Mosca un assassinio, ancora senza soluzione, come altri del resto, quello della giornalista russa della Novaja Gazeta, Anna Stepanovna Politkovskaya (New York 30 agosto 1958 - Mosca 2006), uccisa con un colpo d’arma da fuoco nell’ascensore del suo palazzo.

Lo stesso giorno del suo omicidio la Politkovskaya stava per pubblicare un articolo sulle torture praticate dalle forze di sicurezza della Cecenia, legate al Primo ministro Ramzan Kadyrov (nuovo alleato di Mosca, eletto nel 2003 con forti sospetti di brogli). Sul movente non ci sono ancora piste significative, ma l’uccisione, nel luglio 2020 a Vienna, di un rifugiato ceceno, aspro critico di Kadyrov, potrebbe gettare una luce nuova sulla morte della Politkovskaya.

Il Presidente Vladimir Putin (che, per inciso, compie gli anni proprio il 7 ottobre, giorno della morte della giornalista), anch’egli oggetto di pesanti critiche da parte della Politkovskaya, aveva duramente condannato l’omicidio, aggiungendo che la morte della giornalista “ha fatto più danni delle sue pubblicazioni”.

Dal canto suo l’editorialista della Delobaja Gazeta, Oleg Kasin, osservando che la Politkovskaya non era la più importante rappresentante dell’Unione dei giornalisti russi, aveva sottolineato che il giornalismo nella Russia di oggi non è in grado di influenzare minimamente la situazione del Paese e che pertanto non esiste “alcuna verità così terribile da condannare a morte una giornalista”.

Allora, perché la Politkovskaya è stata uccisa? Per Kasin solo per trentare di destabilizzare il Paese. A sua volta la direttrice del Gruppo di Helsinki a Mosca, Ludmila Alekseeva, aveva definito la giornalista “un’eroina che non sopportava di vedere soffrire gli altri e che non chiedeva niente a nessuno” (il gruppo di Helsinki, creato nel 1975, promuove e difende i diritti umani); e Marco Pannella, presente ai funerali, aveva osservato che “aumenta il potere degli assassini, aumenta il martirio di chi è inerme ma non inerte”. Come era la Politkovskaya. In ogni caso - ha promesso Putin - “chiunque sia stato (ad ucciderla) non resterà impunito”. Ma per ora sì.


Daphne Caruana Galizia

Daphne Caruana Galizia (Malta 26 agosto 1964 - 16 ottobre 2017) era una giornalista e blogger maltese. Laureata in archeologia, aveva iniziato la carriera giornalistica nel 1987 e dai primi anni novanta era diventata firma regolare del Sunday Times. Aveva intrapreso varie inchieste giornalistiche sul malaffare a Malta, prendendo di mira anche il Premier maltese Joseph Muscat, la cui moglie era proprietaria, secondo la giornalista, di una società di Panama, la Egrant.

Le rivelazioni avevano indotto Muscat ad indire affrettatamente elezioni anticipate, che si erano risolte con la vittoria del gruppo del Presidente. La Caruana aveva indagato anche a carico di due politici locali, Konrad Mizzi e Keith Schembri, indicandoli come titolari di un trust neozelandese e, il primo, anche di una società panamense. L’approfondimento delle inchieste della giornalista (che era stata indicata dalla pubblicazione Politico Europe come “una delle 28 persone che avrebbero scosso l’Europa nel 2017”) aveva evidentemente disturbato troppi interessi, al punto che il 16 ottobre 2017 la Caruana, che solo due settimane prima aveva presentato una denuncia per minacce, finiva uccisa nell’esplosione della sua auto.

L’allora Presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, aveva definito l’omicidio “un tragico esempio di una giornalista che sacrifica la propria vita per la ricerca della verità”. Sulla sua scia, a Ronchi dei Legionari l’associazione culturale Leali delle Notizie dal 2018 dedica un premio intitolato a Daphne Caruana Galizia per quei giornalisti che, per amore della verità, rischiano la vita. Intanto le indagini sono andate avanti.

Il 6 dicembre 2019 sono stati incriminati tre uomini come esecutori materiali dell’omicidio - Vincent Muscat e i fratelli Alfred e George Degiorgio - ma già il 20 novembre era stato arrestato come mandante dell’omicidio l’imprenditore Yorgen Fenech, indicato dalla Caruana come titolare di un fondo a Panama (anche lui), e per aver fatto pressioni sul Governo al fine di aggiudicarsi un appalto.

In conseguenza, il capo di Gabinetto dell’Esecutivo, Keith Schembri, e il ministro del turismo, Konrad Mizzi, si sono dimessi e con loro si è auto sospeso, pur dichiarandosi estraneo alla vicenda, il ministro dell’economia Christopher Cardona. Per ricordare Daphne Caruana Galizia e proseguirne l’attività è stato creato il Progetto Daphne, al quale hanno aderito, fra gli altri, la Repubblica, il New York Times, il Guardian, l’agenzia Reuters, la Sueddeutsche Zeitung, Die Zeit e Le Monde.



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