08 Febbraio 2021, 10.15
Paitone
Giorno del Ricordo

Il genocidio delle foibe, «Non erano episodi di guerra»

di Franco Tarsi

«Nessuno vuole negare le ingiustizie e le violenze commesse dall’Italia fascista ai danni di sloveni e croati, ma si è trattato di feroci, ferocissime vendette, che hanno assunto l’aspetto finale di un vero e proprio genocidio»


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Primo maggio 2004: la Slovenia entra nell’Unione Economica e Monetaria Europea (cioè nell’euro) e il 21 dicembre 2007 negli Accordi di Schengen per la libera circolazione. Primo luglio 2013 la Croazia entra nell’Unione Europea ( poi, forse nel 2024, entrerà anche nell’euro). Si chiude così un lungo e imbarazzante strascico del dopoguerra nei rapporti politici fra l’Italia e i due Paesi dell’ex repubblica Jugoslava, definitivamente dissoltasi nel giugno 2006 con la secessione del Montenegro dalla Serbia. Ma rimane vivo un ricordo penoso maturato all’interno del periodo bellico: quello delle ‘foibe’.

Il termine è friulano e viene dal latino fòvea, cioè fossa, che designa quelle strette e profonde voragini carsiche ora interamente in territorio sloveno, ma di cui esistono esempi corrispondenti anche nelle prealpi friulane e nelle Alpi Giulie. Ma non è il significato geologico che si ricorda e si vuole ricordare, bensì quello, orribile, del verbo derivato ‘infoibare’, cioè (vocabolario Treccani della Lingua Italiana): “gettare in una foiba, più in particolare ammazzare una persona e gettarne il cadavere in una foiba, o farla morire gettandola in una foiba (il verbo è nato e si è diffuso al termine della seconda guerra mondiale)”.

In nome di tutte le vittime delle foibe è stato fissato al 10 febbraio (data del Trattato di Pace di Parigi del 1947) per legge del 30 marzo 2004, il Giorno del Ricordo. In un periodo dai contorni temporali mutevoli, approssimativamente fra l’autunno del 1943 e la fine del 1945 (sì, anche dopo la fine della guerra!) sarebbero state infoibate dalle 6 alle 7 mila persone, fra scomparsi e corpi ritrovati, su un totale di 11 mila uccisi (secondo altri, 16-20 mila), oltre a 250-350 mila persone scacciate dalle loro terre, si badi bene, italiani in buona parte autoctoni. Nella sola foiba di Basovizza, vicino a Trieste (correttamente, una vecchia miniera), ora monumento nazionale, sarebbero state gettate, come in una comoda discarica umana, forse 2 mila vittime, secondo un ‘calcolo volumetrico’.

Non si è trattato di ‘normali’ e inevitabili episodi di guerra. Diciamolo chiaramente: si è trattato di feroci, ferocissime vendette, che hanno assunto, viste le dimensioni del fenomeno, l’aspetto finale di un vero e proprio genocidio. Il movente: l’odio per gli italiani, diventati i padroni di casa di parte della Slovenia, dell’Istria, del Quarnaro, di parte della Dalmazia come vincitori e come risarcimento per i morti e i danni della Grande Guerra; odio poi rinfocolato dalla politica di spersonalizzazione e persecuzione delle genti slave, una sorta di pulizia etnica, condotta dal neonato regime fascista e, ancor più, dall’aggressione di Mussolini alla Jugoslavia, al traino delle forze tedesche, e dalle brutali rappresaglie nei confronti dei partigiani e delle popolazioni locali. Quindi quelle delle foibe erano reazioni giustificate alle politiche italiane?

Niente affatto. Non erano episodi di guerra. Stanno invece al livello delle stragi compiute dai tedeschi in Italia a Filetto, Sant’anna di Stazzema, Marzabotto, eccetera, eccetera, per un totale calcolabile in almeno 10 mila vittime. Erano tutte persone innocenti in entrambi i casi, con la differenza, dalla parte dei carnefici, che quelli compiuti dai tedeschi in Italia sono stati eccidi, stragi in ritirata dettate dalla rabbia dei tedeschi (anch’esse, non occorre dirlo, orrende e assolutamente ingiustificabili) per essere stati abbandonati dagli alleati, quello compiuti dai partigiani slavi ai danni degli italiani nei territori dell’ex- Jugoslavia un vero e proprio genocidio, pianificato, per lo meno concettualmente, nella sicurezza di una impunibilità garantita dalla guerra e per di più in casa loro.

Ma con molta fatica si è arrivati a collocare le vittime dimenticate dell’Istria e delle altre regioni slave sul piedistallo del monumento dedicato ai martiri. Perché con molta fatica? Per ragioni reverenziali nei confronti dei partigiani jugoslavi e del loro capo, il Maresciallo Tito (Josip Broz), poi presidente a vita della Repubblica federale jugoslava; per ragioni politiche sorte col famoso ‘strappo’ dello stesso Tito nei confronti di un’Unione sovietica che ci saremmo trovati alle porte; poi per ragioni diplomatiche, con l’instaurazione di una politica di buon vicinato inevitabile col passare del tempo.

Alla restaurazione ‘ufficiale’ di una verità ben visibile ma non ammessa nei rapporti fra i Paesi interessati si è finalmente giunti, prima nell’aprile 2001 con la commissione italo-slovena, nella cui relazione finale si parla di “centinaia (sic)” di morti nelle foibe (solo per la parte slovena) e si ammette che quella dei partigiani titini fu “violenza di stato”, e poi, nel settembre 2011 con l’incontro fra i presidenti di Italia e Croazia, Giorgio Napolitano e Ivo Josipovic, che ha dato “l’occasione per ricordare le vittime italiane della folle vendetta delle autorità postbelliche della ex- Jugoslavia, crimini senza giustificazione alcuna”.

Il ritorno alle normali o, meglio, amichevoli relazioni fra regioni vicine, prima che fra gli Stati interessati - va sottolineato - era già avvenuto da molto tempo con le iniziative di studio e di viaggio instaurate dal Friuli Venezia Giulia, dalla austriaca Carinzia e dalla Slovenia. Un esempio, forse banale ma sicuramente significativo, è l’incontro annuale fra gli abitanti delle tre regioni, che si trovano in vetta al Monte Forno (punto di unione dei tre confini) in un raduno di amicizia fra popoli ed etnie, che coinvolge centinaia di persone. Nel 2020, al Tour de France, anche questo un segno di pace che scalda il cuore, abbiamo tutti tifato per due corridori, Primosz Roglic, secondo arrivato, e Tadej Pogacar, giovanissimo vincitore proprio all’ultima tappa. Tutti due sloveni, cittadini di una piccola nazione (poco più di due milioni di abitanti), che strappa simpatia, ammirazione e stima, certo non più risentimenti storici anacronistici, ingiusti e inutili.

Va bene così. Mantenere risentimenti e odii dopo settantacinque anni dalla fine della guerra non porta da nessuna parte e rischia di creare nuove vittime. Anche queste innocenti, visto che i reali responsabili delle foibe ormai sono tutti morti. Dimentichiamo, quindi, persone, azioni e fatti di allora. Però - questo è lo scopo della giornata che si celebra - ricordiamo quelle migliaia di vittime italiane nella buia pagina delle foibe, orrenda conclusione di uno dei più brutti periodi nella storia del mondo.

Si meritano almeno un ricordo ufficiale, ma soprattutto nel nostro cuore. Sì, ricordiamoli, ma per favore non come quel giornale, italiano si badi bene (cercatelo su Internet), che introduce il ‘Giorno del ricordo’ e la strage delle foibe citando il “fascismo di frontiera” degli anni venti, i ”crimini dell’Italia alla Jugoslavia e i 100 mila jugoslavi deportati” e presenta l’articolo relativo con una foto a tutta pagina di “soldati italiani che fucilano cinque abitanti di un villaggio sloveno”.

Nessuno ha negato le ingiustizie e le violenze commesse dall’Italia fascista ai danni di sloveni e croati, ma - cari colleghi - potevate farlo in un’altra occasione, non per inquinare o svuotare il ricordo dei martiri, innocenti, delle foibe.

Franco Tarsi
consigliere alla Cultura di Paitone



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