Livemmo e il suo Carnevale
di red.
Giuseppe Biati, in questo volume, individuandone gli archetipi, dimostra l’origine atavica di una manifestazione che, per quanto recente nel manifestarsi, affonda le radici nell’inconscio collettivo
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È stata recentissimamente pubblicata la ricerca di Giuseppe Biati dal titolo: “LIVEMMO E IL SUO CARNEVALE. Tra riti, miti, storia, tradizioni e lavoro”.
Il Comune di Pertica Alta ha preso l’ impegno della pubblicazione in un momento particolarissimo per le difficoltà nazionali e mondiali, causa la terribile epidemia in corso.
Vuole questo essere un segno tangibile che la vita, anche e soprattutto quella culturale, non può arrestarsi e/o arrendersi, ma procedere e dipanarsi indicando avvenire e speranza. Avvenire e speranza che primariamente si vanno a trovare e a ricercare nelle tradizioni, nelle nostre radici, nella storia vissuta dagli antenati.
Il titolo è indicativo di per sé.
Accanto alla crescita del borgo di Livemmo (crescita storica, lavorativa, religiosa, civica, di usi e costumi) si affianca un mondo, tutto contadino e artigianale, tipico della Prealpe lombarda, dove anche le feste carnevalesche scandivano (e scandiscono ancora) la vita degli abitanti, nelle varie fogge, nei vari costumi, nelle più impensate modalità.
Nella sua presentazione, il Sindaco, Flocchini Giovanmaria, dice testualmente:
“… pensando a Livemmo, si pensa anche alle condizioni attuali delle nostre zone montane, si constatano difficoltà, ma non viene meno il sogno di immagini future meno difficili, dove l’uomo e la natura possano comporre un binomio creativo.
Certamente il richiamo alla storia non può tralasciare il valore delle tradizioni, ed in specifico quello del folclore locale. Ecco allora che, nel caso di Livemmo, il carnevale diventa elemento portante.
Il libro analizza con rigore questo ‘esprimersi’ della nostra comunità, collegando il ‘Carnevale di Livemmo’ ad altre manifestazioni che definiscono, in situazioni sociali simili alla nostra, sentimenti profondi.
Con il carnevale si apre una ‘finestra’ su una piccola ‘civiltà locale’ che ha valore e ‘ritmi di sentire’ che ne costituiscono l’anima più autentica. Proprio attraverso questa ‘finestra’ si comprende meglio il tessuto umano che ci ha preceduti ma che è per buona parte ancora ben radicato, perché i moti dell’anima resistono a lungo nel tempo”.
La prefazione al libro, di ben 232 pagine e con un servizio fotografico di alto profilo curato da Lorenzo Gabrieli (molteplici ed apprezzate le esposizioni valligiane delle sue fotografie), è del prof. Alfredo Bonomi, profondo conoscitore della vicenda valsabbina e non solo.
Egli così si esprime:
“Il pregio più evidente di questa fatica storico-letteraria di Giuseppe Biati, scritta in maniera assai elegante (e come poteva essere diversamente considerando la preziosità del linguaggio che possiede l’autore?) è proprio quello di aver messo bene in risalto la dignità storica ed umana del paese e del territorio che ha indagati, che per buona parte è anche il territorio della sua vita…”.
E continua:” Non si può scrivere la storia di Livemmo senza quella del suo carnevale, che si va imponendo come uno dei più originali della provincia di Brescia.
“…il carnevale di Livemmo è parte integrante ed importante della ‘civiltà locale’ e pure una ‘finestra aperta’ per scrutare meglio i veri sentimenti dell’uomo di montagna, più in generale, dell’uomo ‘impegnato a vivere’ ed a conquistare ogni traguardo raggiunto con fatica ed ingegno”.
Il libro tratta, in maniera composita ed articolata, tutta la vicenda livemmese. Ma, di fronte a quel Livemmo, si possono identificare tutti i borghi della montagna valsabbina, per le loro origini, per la avvenuta conquista romana, per l’incunearsi della nascente religione cristiana, per la sua esponenziale crescita, per la forte connotazione delle pievi, per l’intravvedersi dei nascenti liberi comuni, per le conquiste viscontee e veneziane, per tutta una serie di fatti legati alla storia moderna e contemporanea.
Occhieggiano riti e miti propiziatori, leggende e storie di strada, usi e costumi, osterie e mercati; mentre per le fucine, i forni fusori, la malga, la cascina, ecc. il racconto si dipana con la connessa quotidiana arte del faticar, innumerevoli sono le notizie di storia e delle modalità per “benevolmente” affrontarla, in un mondo prettamente rurale.
Giuseppe Biati, infatti, nella sua prefazione scrive:
“Trattasi di contadini di montagna che, fino dai primi anni del secondo millennio, erano inseriti, ancora e in buona parte, in rapporti di lavoro ancestrali, di tipo familiare, residuo di precedenti rapporti di tipo para-feudale. Nessuna affrancatura sociale attraverso lotte sindacali o politiche; quelle le avrebbero fatte, molto più avanti, i braccianti della pianura e non i contadini della montagna.
Oggi, sono completamente scomparsi quei contadini di montagna, come li abbiamo conosciuti, pazienti come le loro bestie: aspettavano la pioggia che facesse crescere l’erba, aspettavano il sole che la facesse essiccare; ripetevano tutti gli anni gli stessi gesti; li ripetevano dall’inizio del mondo in una consapevole forza positiva nel possesso dei beni materiali e immateriali che la natura ogni giorno, e giorno per giorno, profferiva, sia sole e sia pioggia, sia cielo e sia terra. Erano le radici dell’umanità!”.
Il Carnevale è poi trattato dall’autore sia nelle linee generali tradizionali di tutto l’arco prealpino, come nella specificità livemmese delle tre maschere-guida: “la vècia dal val, l’omashì dal zerlo, il doppio”, sia nel folto gruppo di coreografia che la profana e godereccia liturgia carnevalesca impone.
“I miti relativi al carnevale – continua Biati - sono disgregati in mille situazioni particolari, atomizzati in mille storie locali; a volte, e non è un caso infrequente, sembra addirittura mancare un qualsiasi mito di riferimento; la collettività partecipa o assiste all’evento, ma sia partecipanti che osservatori non sanno perchè lo fanno; lo fanno perchè “si è sempre fatto così” e basta.
Credo, invece, che ogni rito abbia bisogno del suo mito di riferimento; le cose solitamente non si fanno senza una giustificazione, un collegamento razionale od istintivo con la realtà.
Riuscirebbe certamente inspiegabile l’interpretazione che vede il mito, collegato al rito carnevalesco, come il prodotto dell’impotenza dell’uomo alla ricerca, alla dimostrazione, all’esegesi, al ricordo e alla memoria.
È un po’ il tentativo di questo lavoro: far conoscere e far rivivere, nei momenti aggregativi e sconfitta la solitudine, quei tempi di elaborazione culturale di una intera comunità, che ci sono stati e che ci sono, e rispondono al nome, non di sopravvivenza, ma di storia e di storia viva”.
Un libro da non perdere nella fulgida “costellazione” della storia contemporanea della Communitas Vallis Sabbij
Il volume è disponibile presso il municipio di Pertica Alta e a curarne la vendita ci pensa il Centro Studi Museali Interattivo di Cultura Prealpina, ad un prezzo certo non di mercato, ma simbolico.