25 Gennaio 2021, 07.33
Eppur si Muove

La differenza

di Leretico

Si avvicina la Giornata della Memoria. E cosa val la pena di ricordare, oggi? Oltremodo significativo questo "pezzo" di Leretico


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Il 20 gennaio 1945 il signor Emilio Donati indirizza alla Prefettura di Brescia la seguente lettera:

«A seguito della comunicazione di codesta Prefettura avuta a mezzo del Podestà di Salò Vi trasmetto per l’approvazione il rendiconto della mia gestione quale Sequestratario Prefettizio dei beni mobili ed immobili dell’Ebreo ---Löwi Massimo fu Giuseppe comprendente: un fabbricato di 4 piani in Salò (Fraz. Barbarano) nonché le merci esistenti nel negozio gestito dal suddetto Ebreo in Gardone Riviera.
Nella comunicazione suddetta si precisa che detto Rendiconto dovrà essere da me trasmesso aal’E.G.E.L.I. dopo l’approvazione della Prefettura.
In attesa
Il Sequestratario
(Emilio Donati)»


Donati allega alla lettera il Rendiconto citato che riporta il suo credito nei confronti dell’amministrazione: Lire 700 per 9 mesi di gestione dei beni sequestrati all’Ebreo Lowi Massimo. Totale Lire 6.300.

L’Ebreo Massimo Lowi fu arrestato il 2 dicembre 1943 a casa sua in via Rive Grandi a Barbrano di Salò, fu detenuto nelle carceri di Salò prima di essere trasferito nel campo di concentramento di Fossoli e poi di Auschwitz, dove trovò la morte in data ignota.
A nulla servì la lettera di supplica che egli mandò al Capo della Provincia chiedendo di essere liberato vista la sua età avanzata (aveva 63 anni al momento dell’arresto).

Le figlie di Massimo Lowi -  Carola ed Helene - furono arrestate insieme al padre durante quel fatidico 2 dicembre 1943, poiché agli occhi della Repubblica Sociale erano a tutti gli effetti ebree.
Nulla contava che la loro madre Berta Meyer, nonché moglie di Massimo, fosse tedesca e quindi di razza ariana.

Su pressione del comando tedesco, il 21 gennaio 1944 le due giovani furono liberate dopo un mese e mezzo di carcere, mentre il padre il 22 febbraio fu mandato al campo di internamento vicino a Carpi.
Tragicamente spregevole lo zelo degli Italiani della RSI in tema di ebrei mezzo sangue, certamente molto più duro di quello dimostrato dai nazisti stessi.

Subito dopo la scarcerazione, le due sorelle Lowi presentarono un ricorso al Capo della Provincia per chiedere almeno il dissequestro delle pentole e dei letti, di loro proprietà e non del padre, affinché potessero almeno far fronte con un minimo di risorse alle enormi difficoltà di sopravvivenza in cui erano cadute dopo l’arresto: buttate letteralmente fuori di casa, senza soldi né un luogo dove portesi riparare.

Il Capo della Provincia Barbera, il 5 febbraio 1944 scrive dunque alla Questura di Brescia in merito al ricorso presentato dalle sorelle Löwi.
Il Questore Manlio Candrilli si prende ben un mese di tempo per rispondere e nella lettera del 4 marzo 1944 indirizzata a Barbera non usa mezze misure: afferma che il ricorso delle sorelle Lowi non può essere accolto, perché non è chiaro chi sia esattamente il proprietario dei beni oggetto della richiesta di dissequestro.

Inoltre, secondo il Candrilli, le sorelle «non sono state rilasciate, contrariamente a quanto esse hanno indicato nel ricorso, per essere stata riconosciuta la loro non appartenenza alla razza ebraica, ma per richiesta di codesta Prefettura certamente provocata dalle autorità germaniche.
La posizione razziale delle Lowi non è stata ancora definita dalla Demorazza che di recente ha richiesto a questo ufficio ulteriori notizie per stabilire se le stesse debbano essere considerate, perché figlie di padre ebreo e di madre ariana, entrambi stranieri, appartenenti o meno alla razza ebraica.
Comunque le stesse sono state in passato da questo ufficio sempre considerate come ebree e come tali resero al Comune di Salò il 28 febbraio 1939 la prescritta denunzia».


Come potete aver capito, la famiglia Lowi passò dei momenti tremendi, colpita duramente, privata dei beni essenziali e della libertà del capo famiglia per volontà di quel regime che aveva tanto bisogno di incensare il potere nazista da non avere nessuno scrupolo nel prendersela con i cittadini più esposti, come erano gli ebrei in quei tempi difficili.
Un regime forte coi deboli e debole coi forti, come in ogni comunità in cui regna la corruzione e l’ingiustizia.

Quello che più colpisce leggendo i documenti conservati nell’Archivio di Stato di Brescia, non è solo la disumanità dimostrata dal Questore, che con le sue parole fa intravedere chiaramente quale trattamento avrebbe voluto riservare alle sorelle Lowi se solo le autorità germaniche non si fossero intromesse, ma anche il comportamento di quell’Emilio Donati che guadagnava sulla pelle di quei poveri disgraziati.

Donati è il classico vicino di casa, quello che mai potresti sospettare sia un delatore, quello che ti osserva da lontano per mesi pronto a salutarti quando ti incrocia per strada, ma altrettanto pronto a denigrarti e a denunciarti appena girato l’angolo. Donati rappresenta il male diffuso nelle parti più profonde della società, rappresenta la corruzione morale che ha intaccato la radice del vivere comune. Donati è il peggio che non può far altro che emergere quando il potere è gestito da poveri di spirito.

La guerra finì poco più di un anno dopo gli eventi a cui abbiamo accennato.
Il potere cambiò volto, tornò la democrazia, finì la dittatura.

Facciamo, tuttavia, un salto un po’ più lungo nel tempo e andiamo al 4 dicembre1954, quasi esattamente undici anni dopo l’arresto di Massimo Lowi.
Nel Parlamento italiano si vota un provvedimento particolare: un disegno di legge per l’assegnazione di una pensione ai mutilati, gli invalidi e i congiunti dei caduti che appartennero alla Repubblica Sociale Italiana.

Il senatore Francesco Zane, del distretto di Salò, ex partigiano delle Fiamme Verdi, pronuncia la sua dichiarazione di voto:
«Dichiaro che il mio voto è favorevole, ma è circoscritto ad una vera e propria attestazione di umana solidarietà verso coloro che hanno patito in “quelle condizioni” e in “quell’ambiente”.
Io ho vissuto il dramma clandestino proprio a Salò e posso essere nelle condizioni di stabilire come certe adesioni alla Repubblica Sociale Italiana siano state carpite.
L’elemento fondamentale che indusse certi poveri giovani a cedere, dopo che si erano dati alla macchia e avevano raggiunto la montagna conducendo una vita di stenti e di fatiche, era questo: era parso loro – per la martellante propaganda repubblichina – che ormai l’unico governo ufficiale legittimo fosse quello della Repubblica Sociale Italiana. Essi cedettero perché suggestionati da questa convinzione, specie dopo i rastrellamenti. Ormai non c’era tempo da perdere, si dovevano presentare».


Siamo alla conclusione di questo breve racconto.
Non servono, infondo, altre parole da aggiungere: ci fu chi nel 1943 scelse di dare la morte, chi scelse la delazione e l’arricchimento carpito sulla pelle di poveri disgraziati, e chi invece, solo undici anni dopo, scelse di aiutare proprio coloro che allora non seppero decidere per la vita e per la giustizia.

C’è un grande scarto tra i due modi di comportarsi, una differenza sostanziale, fondamentale, una filosofia completamente diversa.
Qualcosa che fa veramente, incontrovertibilmente la differenza.

Solo in questa differenza e per questa differenza vogliamo vivere, anche se sappiamo che i poveri di spirito non hanno smesso di esistere e potrebbero nuovamente e malauguratamente verificarsi le condizioni per il loro ritorno al potere.

Leretico




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