18 Ottobre 2019, 07.31
Pertica Alta Valsabbia
Barbaine

Barbaine 2019

di Giuseppe Biati

In occasione dell'omaggio ai Caduti della Resistenza, lo scorso 13 ottobre, a Barbaine di Livemmo ha preso la parola nel ruolo di oratore ufficiale lo storico prof. Giuseppe Biati. Ecco il suo discorso, per chi vuol capire cosa è stato e cosa può essere ancora il fascismo in Italia


“…perché domani si possa vedere il frutto
che compenserà le nostre fatiche…”.

Negli anni precedenti, sempre in questa tipologia di incontri, “non liturgia della presenza, ma significativo momento di presa in carico di storia e memoria”, la prof.ssa Daria Gabusi aveva approfondito, nel suo pregevole intervento “Convivere per vivere”, la storia del ribellismo per amore.

Quindi mi esenta dal ripercorrerla, anche perché la sua riflessione, assieme a tutte quelle degli oratori degli anni precedenti e a quelle degli studenti dell’Istituto Superiore valsabbino “Giacomo Perlasca”, saranno di prossima pubblicazione in appendice agli atti della convegnistica valsabbina sulla Resistenza, a cura del “Centro Studi La Brigata Giacomo Perlasca delle Fiamme Verdi e la Resistenza bresciana”, egregiamente presieduto dal prof. Alfredo Bonomi.

Oggi, in questo luogo sacro, abbiamo il dovere di ricordare, di fare memoria assieme, di ricercare, di individuare quale è la Resistenza al presente, fermi restando quei costitutivi valori fondanti di allora!

Scriveva Don Milani:
“ Ma in questi cento anni di storia italiana c’è stata anche una guerra “giusta” (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana “. 
Il prete di Barbiana, in quel contesto, non usava retorica, ma era un tenace cercatore di Verità e, nelle sue brevi parole, c’è il giudizio più alto sulla Resistenza.

Questo non esime gli storici dal loro lavoro di approfondimento e di contestualizzazione dei vari momenti ed atti della medesima e delle diverse resistenze (“la rivolta morale” degli uomini, delle donne, degli studenti e degli intellettuali, degli operai e dei contadini, dei professionisti e dei borghesi, dei ragazzi, delle famiglie, degli insegnanti, del clero, ecc.), ma la stella polare, il giudizio di fondo, rimane quello. 

Nella motivazione della Resistenza sta anche tutta la sua attualità
: essa fu lotta di Liberazione contro l’oppressore, uno dei più infami e crudeli che la Storia ricordi.
Quindi nella lotta all’oppressione sta la motivazione più profonda della Resistenza che continua, qui ed ora.

Accanto all’oppressione politica, economica e sociale, che genera scarti, morti ed ingiustizie crudeli, vi è, come sempre peraltro, un’oppressione ideologica che diventa propaganda, mitizzazione della menzogna ed infine  lavaggio del cervello, tentativo di annullare ogni risvolto critico delle persone. 
Ecco allora che Resistenza qui ed ora diventa l’affermazione coraggiosa della verità, non intesa come proclamazione di dogmi indimostrabili, che è l’altra faccia di quanto prima affermato.

Affermare la Verità, compito quanto mai urgente, diventa ricerca della Verità, coraggio di essere trasparenti in tutte le motivazioni delle nostre affermazioni.
Dare ragione delle proprie affermazioni vuol dire entrare in una dimensione di dialogo, partendo dalla convinzione che la Verità che ci è davanti, davanti a tutti, è capace di illuminarci nella costante ricerca e nel mantenimento continuo di quella libertà conquistata a caro prezzo.

La situazione dell’oggi ci dice che
questa ricerca e l’affermazione della stessa stanno nell’assunzione di responsabilità, chiamandoci per nome in ogni nostra affermazione: un lavoro di autenticazione che si attua giorno per giorno e non ammette deleghe.
“Per questa nuova città – scriveva Teresio Olivelli – lottiamo giorno per giorno perché sappiamo che la libertà non può essere elargita dagli altri. Non vi sono “liberatori”. Solo uomini che si liberano…”. 

Il come funzionano le cose nell’oscurità del conformismo
l’aveva colto sempre don Milani nella sua lettera ai giudici nel processo che lo vedeva imputato per aver difeso l’obiezione di coscienza:
“… a dar retta ai teorici dell’obbedienza, e a certi tribunali tedeschi, dell’assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore”. 

Responsabilità come parola chiave contro irresponsabilità e ignoranza.

Su questa asserzione, nell’antitesi dualistica tra responsabilità e irresponsabilità, facciamoci alcune semplici domande, indizioni per ulteriori necessari approfondimenti, presupposti alla nuova ed  attuale Resistenza, per una cittadinanza consapevole e partecipativa!

Chi è responsabile del degrado morale che l’uso folle, a volte criminale, dei social e dei media ha generato?
Non è forse questo, se incontrollato, l’andare verso nuove forme di dittature senza volto, pervasive, omologanti, manipolatrici?

Chi è responsabile del degrado ambientale? 
È la grande riflessione moderna, anticipata 60 anni fa dagli scienziati, rimasta inascoltata e adesso pesantemente ricaduta sulle giovani generazioni!
Si prospetta ora una nuova cultura, non antropocentrica, ma fondata sul riconoscimento di diritti per tutti gli organismi viventi in sinergica interdipendenza!
 
E, non per ultima!
Chi è responsabile del degrado etico-morale, anche di linguaggio, di certa politica, ben lontana da come Paolo VI, il grande Papa che ispira Bergoglio, (…dovremmo coltivare una qualche forma di nostalgia verso gli scritti sociali di Giovanni Battista Montini!), nel discorso tenuto alla FAO per i 25 anni della fondazione, la intendeva:
…la politica è la più alta forma di carità”  e, addirittura, nella “Octogesima adveniens” “…una delle forme più alte e difficili di servire la carità” , dove carità vuol dire amore per l’altro, a prescindere dalla religione professata, dalla propria cultura, dal colore della pelle, dalla lingua con cui si esprime!
E più esattamente, per tornare all’assunto iniziale di Don Milani: ”Non ci può essere carità politica senza verità politica!”.

Ecco perché resistere è quanto mai attuale:
la declinazione sociale ne verrà di conseguenza per chi avrà il coraggio di guardare la realtà in faccia e non ritrarsi dietro la scusa che ”non mi interessa”.

Il “non è affar mio” è l’impolitica solitudine, che ciascuno regala a se stesso, come “notte della comunità”, dove vien perso il senso del con-essere, essere-con (il Mit-sein heideggeriano); dove la stessa comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole  sino alla riduzione al singolo individuo.
E solo sul singolo individuo allora si costruiscono i diritti: il diritto solo e unicamente individuale , tentando di marginalizzare i diritti delle formazioni sociali, quali famiglie, sindacati, partiti, associazioni, volontariato, ecc. e  degli organismi istituzionali, come lo Stato, le regioni, gli organi di garanzia, di controllo, ecc. 

In questa logica tra soli individui, non vi possono essere che contratti, in funzione dei rispettivi interessi e dei reciproci scambi: un mero occasionalismo!

La strategia deve essere diversa, più alta e più ambiziosa
, lungimirante, da esseri consapevolmente sociali, aperti, inclusivi.
E ancora il priore di Barbiana ci viene in soccorso nell’unica via possibile “del sortirne tutti insieme” ,  a patto e a condizione che la finalità dell’impegno sia quanto di più sacro e di più vitale che gli uomini stessi hanno costruito per la loro pacifica  convivenza democratica: un supremo bene collettivo, dove diritti e doveri della persona, delle formazioni sociali, degli organismi istituzionali, nella prospettica visione di un riconoscimento di parità per ogni organismo vivente, trovino corretta compensazione e sinergica interazione.

Non ritroveremo le ragioni di un doveroso altruismo e nemmeno le ragioni di un appagamento personale, – scriveva Mino Martinazzoli – se non ci convinciamo che la nostra vita singolare è più piena, più gratificante, più degna se paragonata alla misura della nostra vita plurale”.
Credo che volesse dire di un imprescindibile vincolo che fonda la democrazia, un vincolo che lega ciascuno di noi non solo ai viventi, ma al numero incalcolabile di creature che hanno camminato e cammineranno sullo splendore e sul dolore di questa terra.

Mi fanno sempre molto pensare nella transizione dal XX secolo all’ancora indefinito, ma già problematico nuovo millennio, le  parole del grande storico Tony Judt, che ci indicano nuove sfide:
“La scelta con cui si confronterà questa generazione non sarà tra il capitalismo e il comunismo, o tra la fine della storia e il ritorno della storia, ma tra la politica della coesione sociale basata sugli scopi collettivi e l’erosione della società per mezzo della politica della paura!”.
Riflessione che anche oggi facciamo, in tempi che possiamo considerare difficili e ricolmi di sconsiderata antipolitica, di intolleranza, di odio razziale, di disprezzo delle vite umane, di degrado ambientale con processi degenerativi troppo spesso tollerati e non puniti, di rievocazione di regimi totalitari!

E, a proposito di questi ultimi, ricordiamoci che l’apologia del fascismo non è una libera espressione o una semplice opinione: è reato!

“Non vogliamo sangue – scriveva Lionello Levi, in Viaggio nell’Italia liberata - e nemmeno confino e prigioni di fascista memoria. Ma vogliamo che dalla scena politica italiana, dai gangli vitali della vita nazionale spariscano una volta per sempre tutti coloro che sono stati la causa prima delle sventure della patria”.

Ma perché non ammettere che il passato, questo tragico passato facciamo tanta fatica a riconoscerlo?


“Anche noi abbiamo la nostra colpa – parole di Zenit -  e bisogna saperla espiare e bisogna rimediare.
Perché abbiamo applaudito a cuor leggero, quando si sostituiva all’amore della patria un’idolatria per un uomo, alla libertà politica la mistica della parte, quando allo spirito di avventura si dava la veste di giustizia, quando all’impresa predace si dava il titolo di missione civilizzatrice”. 


Lo squadrismo di Casa Pound, di Ordine Nuovo, di Forza Nuova, delle organizzazioni dell’anarchismo estremista e insurrezionalista, i vessilli “repubblichini” issati a sfida sulle alture e ostentatamente portati nelle piazze, le dichiarazioni anti-Costituzione di alcuni politici (troppi!) inquietano non poco  e vanno ad avvalorare un dubbio feroce che mi e ci attanaglia!

Ed è questo:            
“…i fascisti son tornati in scena, a gran richiesta degli Italiani immemori”; di quel fascismo da non intendersi tanto come connotazione esclusivamente riferibile a quello specifico periodo storico, ma come “dottrina che non è solo traviamento del pensiero, ma dissacrazione e disgregazione dell’humanitas, dei sentimenti fondamentali e sacri…”,  come scriveva Alberto ne “I QUADERNI DE “il ribelle”.

L’immemoria è, quindi, la gramigna da estirpare, sostituendola con lo studio della storia, attraverso documenti e memorie!
Perché non si possa scrivere e dire come in quelle ultime lettere dei soldati tedeschi nella tragica sacca di Stalingrado:

“Dieci anni fa si trattava ancora della scheda elettorale, oggi ci costa una cosa da nulla: la vita”.

“Signor consigliere, Stalingrado è una buona scuola per il popolo tedesco, peccato solo che coloro cui viene impartita oggi questa istruzione, difficilmente la potranno valorizzare più tardi. Si dovrebbe poterne fissare il risultato…”.


Questa difficile e turbolenta situazione ci porta alla convinzione che la pace, la democrazia, la giustizia sociale, con i valori connessi di accompagnamento e di implemento (come il diritto alla casa, al lavoro e alla retribuzione, alla formazione – da lì si deve partire -, all’ambiente, alla cittadinanza, ecc.), non sono una acquisizione definitiva, per sempre!

Bisogna allora VIVERE, DIFENDERE E FAR CONOSCERE LA RESISTENZA CON I SUOI VALORI!

Come allora!

La Carta costituzionale, frutto di quella lotta, c’è e va ogni giorno studiata, praticata, difesa, rivitalizzata, come il grande Calamandrei, nel discorso agli studenti milanesi (anno 1955), ricordava:
“Quindi, voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come vostra; metterci dentro il vostro senso civico, la coscienza civica; rendersi conto (questa è una delle gioie della vita), rendersi conto che nessuno di noi nel mondo non è solo, non è solo che siamo in più, che siamo parte, parte di un tutto, un tutto nei limiti dell’Italia e del mondo.
Ora io ho poco altro da dirvi.
In questa Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre gioie. Sono tutti sfociati in questi articoli; e, a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane…”
.

Voci lontane, dai “tragici sotterranei della storia”, dai moniti apparentemente silenziosi di questi cippi spezzati, voci sublimi, come quella del maestro elementare e di vita, giovane come eravamo tutti noi, Emiliano Rinaldini, invocante concordia e speranza:
“Ritorneremo, ritorneremo! Ma ora è necessario piangere e seminare, perché domani si possa vedere il frutto che compenserà le nostre fatiche piene di sciagure. Quel che ci deve preoccupare è lo sforzo per poter allontanare il pericolo di ritornare a premere coi piedi una terra nera, senza uno stelo. Cerchiamo di ricavare il meglio anche dal dolore che ci accascia e nutriamo in cuore la speranza…” 

“…di un domani dove si possa vedere il frutto che compenserà le nostre fatiche”.


Viva la nostra Patria, Viva la Resistenza, ora e sempre!

Giuseppe Biati

Dal sacrario partigiano della Brigata Perlasca, presso la chiesa dei Morti di Barbaine, in Livemmo,
lì, 13 0ttobre  2019.




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