After (Happy?) Hours

Da tempo mi riprometto di parlare di/dei/degli Afterhours, ensemble meneghino tra i più attivi e longevi della scena indipendente italiana.
Dal 1989, anno di uscita del mini-ep “All the Good Children Go to Hell, ad oggi la band ha registrato otto album, oltre allo splendido doppio live “Siam tre piccoli porcellin” (la mia copia è prova di quanto neppure il formato cd sia esente dai danni dell’usura, che tante denigrazioni causarono al buon vecchio supporto in vinile).

Negli ultimi mesi ho avuto modo di “incontrare” gli After (mi permetto l’affettuoso epiteto da estimatore di lunga degenza) in tempi e luoghi differenti.
Al mattino, in edicola, il primo approccio: acquisto “Le Sessioni Ricreative”, cd allegato al mensile Xl con alcune anticipazioni dell’imminente uscita discografica.
7 maggio, FNAC di Verona, primo pomeriggio: acquisto “I Milanesi Ammazzano il Sabato”, album uscito il 2 maggio per la Universal e seguito, com’è consuetudine, da showcase e concerti di presentazione. Prendo parte ad ambedue le esibizioni: showcase al megastore scaligero di cui sopra e concertone (è proprio il caso di dirlo) al Palasharp di Milano.
Totale: 41,80 €, senza calcolare pedaggi autostradali, idrocarburi e spese accessorie connesse alle quattro trasferte, che hanno progressivamente assunto i caratteri del pellegrinaggio.

Bene, con ordine.
“Le Sessioni Ricreative” è stato un ottimo antipasto, che rende giustizia al talento di quel grande musicista che è Enrico Gabrielli, recentemente unitosi al gruppo in qualità di fiatista/polistumentista. Enrico ha composto un brano di musica classica che Manuel (Agnelli, indiscusso leader maximo della band) ha deciso di utilizzare come punto di partenza per la stesura di uno dei pezzi più eclettici e ben riusciti dell’ultimo lavoro, “È solo febbre”.
“I Milanesi Ammazzano il Sabato” è stato una gradita sorpresa, un album smaccatamente rock ‘n roll, dove le chitarre elettriche tornano ad essere primedonne che ancheggiano su granitici tappeti ritmici e arrangiamenti anarchici e destabilizzanti.

“È una tradizione nostra” spiega Manuel al manipolo di mitomani (tra cu il sottoscritto) assiepati nel retrobottega della FNAC “ogni disco deve cercare di dire qualcos’altro rispetto a quello che abbiamo già detto”. La calura e l’orario, più consono al Campari che al martirio, mi convincono a desistere, e abbandono la sala.
Il senso di colpa per il gesto scortese mi induce a rimediare, andando a far visita agli Afterhors in quel di Milano, per la data conclusiva del tour di presentazione dell’album. Il Palasharp è gremito, ma i nostri sono avvezzi ai bagni di folla e danno spettacolo, inanellando brani vecchi e nuovi in uno show che conferma un certo “stato di grazia” del sestetto (presto quintetto, causa la fuoriuscita del violinista Dario Ciffo).

Bene: penso di aver ben delineato i caratteri di una passione-ossessione con la quale nessuno di voi spero debba mai fare i conti (in tasca, soprattutto), ma lo spassionato consiglio è quello di degnare di un orecchio questi Milanesi, assassini sì, ma di gran classe.

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