07 Settembre 2018, 09.16
Valsabbia Val del Chiese
Storia

Vita d'alpeggio

di red.

Una suggestiva “finestra” sul mondo contadino degli anni '50 in Valle del Chiese e in Valle Sabbia quella che ci fornisce questo articolo storico a firma di Gianpaolo Capelli e Angelo Cimarolli


Questa domenica a Boniprati, sopra Castel Condino, ci sarà la "Desmalgada", ovvero la discesa dalle malghe in altura sui prati di Boniprati delle mucche dei vari proprietari agghindati a festa. L'anno scorso l'affluenza del pubblico è stata ottima e la festa ben riuscita.

Da quest'articolo, scritto da Gianpaolo Capelli con l'amico Angelo Cimarolli e tratto dai racconti dei “malghes” ancora viventi, emerge un interessante spaccato del mondo contadino dagli anni '40 agli anni '70 circa, quando in zona le malghe furono dismesse per mancanza di bestiame e ora affittate a malgari che vengono da altre province.

Il lavoro era il medesimo nella malga confinante di Storo e nelle altre malghe della Val del Chiese e della Val Sabbia.
 

Uno spaccato del mondo contadino negli anni '50 a Baitoni. Vita d'alpeggio a Malga Alpo, Bondone
 
Da alcuni anni a settembre, in diverse valli del Trentino, al rientro del bestiame dalle malghe in altura, si organizzano delle vere feste per la “desmontegada” o “desmalgaa”, tanti i nomi in dialetto per l’evento. Le bestie agghindate con fiori e corone, al suono dei campanacci, fanno il rientro alle stalle.

Raccogliendo le testimonianze di chi ha fatto il “malghes” dagli anni ‘40 fino agli anni ‘80, la vita non era così poetica come appare nelle manifestazioni sopra citate. Pietro Ferrari (piari classe 1929), ancora ragazzo, dal 1942 per trent’anni, calcò i prati di malga Alpo di Bondone, situata sul confine tra il Trentino e il Bresciano. Vita dura fatta, cominciando con la mansione di “paraqua”, (ragazzo che rimaneva dietro il bestiame, spingendolo avanti verso il pascolo), diventando poi capomalga con Pio Cimarolli (fuga) e con Malcotti Giovanni (fort). “Soldi pochi e fatiche tante” commenta.

Anche Salvotelli Stefano (classe 1943) ricorda i tre anni passati in malga a fine anni ‘50. Sveglia ancora alle quattro per mungere: “dormivo in piedi” commenta, tanto che il capomalga di allora, Pio Cimarolli, faceva il lavoro in vece sua, lasciandolo dormire. Nel 1959, Stefano cambiò lavoro emigrando in Svizzera dove il lavoro era meno faticoso e i soldi di più.

“Due Paesi, una lingua, un antico castello...”: così recita l’inno a Bondone e Baitoni. Due paesi dello stesso ceppo genealogico, dello stesso Comune, ma diversi nell’attività lavorativa che i loro abitanti hanno svolto nei secoli: Bondone il paese dei carbonai e Baitoni quello dei contadini. Quest’ultimi si sono dedicati prevalentemente all’allevamento del bestiame ed alla coltivazione dei campi, dissodando e bonificando la zona paludosa della piana di Baitoni, trasformandola in campi e prati molto fertili per le varie coltivazioni.

Baitoni non ha storia, risale al 1800 e il suo nome deriva da baita. L’allevamento del bestiame, permetteva ai contadini di Baitoni un sostentamento appena sufficiente per le famiglie sempre numerose. Per far fronte ai pagamenti della tassa sul bestiame, delle “stevre” (imposta sui terreni) e del debito di malga, rappresentato dal costo del casaro e dei malgari e dal canone d’affitto della malga e del pascolo comunale, diversi contadini dovevano allevare un vitello che acquistato in primavera ad un certo prezzo veniva venduto in autunno. Negli anni di crisi antecedenti e durante la seconda guerra mondiale è successo più di una volta che la bestia acquistata in primavera a 50 doveva essere venduta in autunno, a causa della crisi del mercato, a 40 o 45, così, dopo averla mantenuta per diversi mesi in stalla, si avevano i danni e anche le beffe.

 
Il primo caseificio
 
Con l’aumentare delle mucche è sorto il caseificio “Casèl” di Baitoni nei locali siti in piazza al piano interrato dell’allora edificio adibito a Scuole Elementari. Esso era costituito da tre locali: lavorazione del latte, silter del latte e silter del formaggio. Il latte veniva conferito due volte al giorno dalle ore 5 alle 6 sia il mattino che il pomeriggio; il casaro provvedeva a pesarlo e ad annotarne la quantità sul registro, mentre l’allevatore a cui toccava il turno provvedeva a portarlo nel silter del latte e colarlo nelle apposite bacinelle.

Il turno veniva stabilito dal casaro in rapporto alla quantità del latte conferito dal singolo allevatore ed il totale raccolto. Per la cagliata ognuno portava la legna necessaria per scaldare il latte nella caldera grande e nella piccola l’acqua necessaria per la pulizia degli attrezzi e contenitori per la lavorazione del latte. Il burro veniva asportato appena confezionato, mentre il formaggio era trattenuto nel caseificio per la lavorazione e salatura, veniva asportato dal proprietario quando le “scalere” del relativo locale venivano a risultare incapienti. Il “casel” di norma funzionava da dicembre a maggio.

 
All'alpeggio

Dai primi di giugno fino ai primi di settembre le mucche venivano mandate all’alpeggio “en mut” a Malga Alpo, permettendo così ai contadini di esercitare con più libertà i lavori campestri: fienagione nella piana di Baitoni, a mezza e alta montagna, coltivazioni varie che occupavano a tempo pieno, in modo particolare le donne; il lavoro era tutto manuale: vangare, seminare, zappare, serchiare (colmare i solchi delle patate e del granturco), rastrellare, portare a spalle le base di fieno dei prati montani, raccogliere il frumento e il granturco, cavare le patate.

Tante anche le piante da frutto che davano ciliegie, pesche, fichi, mele, pere, noci, eccezionali senza alcun trattamento. La coltivazione dell’uva americana (fraga) e del clinto permetteva a molti contadini di pigiare in autunno l’uva, ottenendo un vino non certo “doc” come i nostri trentini, ma comunque bevibile dopo un travaso o due. Per la gestione della malga venivano incaricati a turno due allevatori chiamati “macher” i quali “cordavano”, cioè facevano un contratto verbale di lavoro per il periodo della monticazione; il casaro “casèr” che andava in malga d’estate solitamente era quello che aveva fatto funzionale il “casèl” durante l’inverno, mentre i malgari se non venivano trovati in paese, si cercavano nei paesi vicini o in Valvestino e Magasa.

Pietro e Stefano ricordano: Pio Pace “menech” e Zeni Vittorino “baronì” casaro di Magasa e Lino Stefani “tachì” di Turano. Questi dovevano portare le mucche al pascolo, mungerle e accudirle per tutta l’estate. Il capomalga 1° malghès guidava la mandria al pascolo e conferiva i compiti agli altri che collaboravano per la buona riuscita delle varie operazioni, il 2° malghès faceva la polenta alle 8 del mattino, il 3° andava in cerca delle bestie mancanti, il “paracua”, che di solito era un ragazzo molto giovane e che al pascolo seguiva in coda alla mandria, faceva un viaggio al mattino a prendere l’acqua alla “Pozza del casèr”, lo “scotù” era l’aiutante del casaro, portava il latte nella caldera per la cagliata, faceva il burro, dava da mangiare ai maiali, andava per acqua e per legna e faceva la polenta alle 3 del pomeriggio.

 
Il lavoro in malga

In malga si sfruttava tutto quello che il latte poteva dare. Prima di tutto dal fondo delle bacinelle nel “silter” cioè nel cascinello al fresco, veniva cavato il latte e quindi da ultimo la panna che messa nella zangola, una specie di botte tonda che si faceva girare con arte e pazienza, si otteneva il burro che veniva lavorato a mano per eliminare i residui di latte e permettere una più lunga conservazione dato che non c’erano né congelatori né frigoriferi, a volte per rassodarlo veniva messo nell’acqua fresca.

L’attività del casaro era poi quella di fare il formaggio. Entrando nella cascina lì in centro alla parete di sinistra c’era un grande focolare con appesa su un marchingegno in legno “caenal”, che permetteva di spostare il paiolo da sopra il fuoco, la caldera che veniva riempita del latte spanato, nel quale, non appena aveva raggiunto la temperatura desiderata, veniva introdotto il caglio e quindi spostato da sopra il focolare e lasciato a riposare fino al formarsi della “feta” (prima fase), quindi con appositi attrezzi, veniva prima tagliata a fette e quindi finemente sminuzzata, fino agli anni ‘50 con un bastone pieno, per la parte entrante nella caldera, di lunghe spine fissate in modo circolare e negli anni successivi con un allora moderno attrezzo costituito da fili metallici disposti su un telaio rettangolare, con lungo manico, assomigliante all’arpa.

A questo punto la caldera veniva spostata nuovamente sopra il focolare per riscaldare il tutto fino a quasi 40 – 45 gradi, tenendo sempre mescolato il formaggio che appena pronto era raccolto con un’apposita pezza e messo dentro le fascere, (cerchi regolabili di assicelle di legno dette “sercle”) sullo “spörsür” dove il casaro lo comprimeva con tutte due le mani, rivoltando diverse volte la fascera con dentro il formaggio, per far uscire tutto il siero; ultimata la prima lavorazione veniva compresso con un’asse con sopra un sasso o blocco di cemento.

Saperi e sapori

Appena il formaggio aveva perso tutto il siero e preso la forma regolare veniva salato a mano o messo nella saliera per qualche giorno e poi a stagionare sulle “scalere” nel locale “silter” del formaggio, dove, quotidianamente rivoltato, rimaneva fino a fine stagione. Aggiungendo poi al siero una dose di siero agro o di sale amaro si otteneva l’ottimo “fiorìt” chiamato così perché era il fiore della ricotta, i contadini che stavano falciando i prati montani dell’Alpo mandavano nel primo pomeriggio i ragazzi a prenderne un po’ ed il più delle volte veniva consumato per la merenda come companatico della polenta avanzata a pranzo o di qualche pezzo di pane.

La ricotta “poina” veniva estratta per ultima, messa in appositi sacchetti di tela prendeva la caratteristica forma arrotondata e dopo la salatura veniva posta su delle apposite assi sopra il grande focolare usato per la produzione del formaggio, dove le forme venivano stagionate e affumicate, ottima grattugiata nella minestra e sui cornetti fritti con burro e aglio. Praticamente non veniva buttato niente, il siero “scòto” veniva dato da mangiare ai maiali che nella vicina porcellaia attendevano all’ingrasso per poi essere trasformati in ottimi salumi nel tardo autunno.

Dopo una settimana di alpeggio si teneva la prima pesa, effettuata dai macher che provvedevano al controllo del peso e riporto su apposito quaderno. In base alla quantità di latte risultante dalle pese, il casaro assegnava le quote di burro e poina ad ogni contadino, che saltuariamente provvedeva a ritirare quanto spettante. Ogni allevatore, in base al numero delle bestie alpeggiate, doveva portare in malga una quantità, predeterminata dai “macher”, di farina gialla per le quotidiane polente, mentre il riso, la pasta e altri alimenti venivano acquistati con molta parsimonia presso un bottegaio del luogo; la relativa spesa confluiva nel “debet de mut” (debito di malga). Era consuetudine fare la polenta “teragna”, nel corso dell’estate e precisamente a S. Pietro e Paolo, al 2 agosto ed alla terza pesa; un’ultima grande polenta “teragna”, ben condita con burro e formaggio, niente salumi, veniva fatta alla mezzanotte dell’ultimo giorno, per i malghès, compreso il casaro, i macher e gli incaricati alla ripartizione del formaggio.

Dall'alba fino a sera
 
La vita dei “malghes” era molto dura e faticosa in particolar modo nella prima metà della stagione quando le mucche da mungere davano tanto latte. All’albeggiare sveglia ed inizio della mungitura delle mucche, che avveniva allo scoperto dentro lo “stòl” (recinto di legno), tra le ore 4 e le 8, sia il mattino, sia la sera; problematico era mungere quando pioveva, in mezzo al fango e per riparo un cappotto di gomma cerata, seduti su uno sgabello di legno con un sol piede detto “scògn” assicurato al sedere con una cordicella infilata in un gancio “rampina” nella cintura dei pantaloni; forse il latte munto quando pioveva a dirotto non sarà stato molto genuino e puro, anche se il casaro per limitare le impurità usava come filtri nel colino delle spesse rame di abete (dase).

Per le ore 8 era pronta la polenta ed il companatico quale prima colazione e pranzo, quindi verso le ore 9, dopo una breve preghiera, la mandria veniva portata al pascolo. La sera, al rientro dei Malghès, seguiva la cena, preparata dal casaro, a base di riso e qualche volta minestra fatti col latte e dopo una ricontrollata al bestiame tutti a nanna nel sottotetto sopra il silter del formaggio, pavimento di legni e per soffitto il tetto senza isolazione (cantèr e coppi) dalle cui fessure si ammirava il cielo stellato.

Per tutti la paga arrivava verso fine ottobre dopo che erano stati fatti, ripartiti e riscossi dai proprietari del bestiame alpeggiato quanto dovuto: pochi soldi per tante fatiche e giornate interminabili di lavoro. 
 
A Baitoni, piano piano, il bestiame è scomparso: i giovani preferiscono altri lavori. Malga Alpo è stata ristrutturata e viene affittata ad allevatori di bestiame che vengono da fuori. Da venticinque anni si svolge la festa del carbonaio per ricordare il secolare lavoro degli abitanti di Bondone e dove alla “Levata” in cima al paese è stato posto un bellissimo monumento bronzeo dello scultore don Luciano Carnessali, a loro dedicato, e benedetto nel 2002 da monsignor Luigi Bressan. 
 
Gianpaolo Capelli e Angelo Cimarolli

 
Le foto risalgono agli anni '50 e sono di proprietà di Gianpaolo Capelli:

- casaro Vittorino con Stefano e malghes tur
- la malga Alpo negli anni '50
- malghes davanti alla malga
- il primo caseficio a Baitoni nel 1950
 


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