24 Dicembre 2017, 23.46
Serle Prevalle
Il racconto di Natale

Il memorabile viaggio della Vigilia di Natale

di Paolo Catterina

"Alla carissima Natalia e alla sua amata contrada di Notica" il racconto natalizio che Paolo Catterina dedica a familiari ed amici. Lo pubblichiamo volentieri


Vivevano un tempo a Notica in un’ampia casa cui faceva da preludio un antico portale Mesèr Vincenzo e Mesèra Ambrosina Baldini.
Era una coppia matura, brava gente, non troppo povera, agiata di un’agiatezza vissuta come lotta spartana per cavar qualche soldo da un poco di terra. La loro casa aveva un bel portico con una porzione di loggiato proprio nel mezzo della contrada e tutti li conoscevano come persone tranquille, forse un po’ troppo “tègn”, a voler dire che il loro tenore dimesso rasentava l’avarizia.

Quell’anno i bachi da seta non avevano fatto bello.

L’Ambrosina si ritrovava di un umore pessimo, il marito Vincenzo, accucciato vicino al grande fuoco nella cucina a volto, la lasciava snocciolare le sue Ave Maria senza dire niente, pensieroso alquanto.
“Dés ónse de caalér!”, sbottò Ambrosia al termine del Rosario, “nàcc töcc en niènt... Ga’n caaròm trè palanche, a fa bèl”.
“E mé che speràe de compram el sciàl”.
“Che vöt mài Ambrusìna… ta vedaré, el compraròm l’an che vé, el to sciàl”
“L’àn che vé? L’ho mìa gnamó vìst mé, l’an ché vé!”
“…ga speràe pròpe, st’an, al mé sciàl…”


Quindi, poiché la matrona pareva aver concluso il suo sfogo
, Mesèr Cenzino, credendo che la buriana fosse passata, staccò il suo roncài dal chiodo cui era appeso e fece per uscire verso il brolo.
“Lassa stà le piànte per enchö. Domà ta garé laze de simàle e de spontàle come ta vòet!” le si rivolse la moglie.
Da quando Mesèr Vincenzo aveva conosciuto un sedicente pronipote del famosi Camillo da Gavardo, il quale si spacciava per grande agronomo ed esperto “arborista” anch’esso, era un continuo sperimentar metodi nuovi per “incalmà, roncà, tajà, simà, spodetà”, ma, finì la Ambrosina, “con tutto quel rognare, non so più ne’ manco che gusto hanno le mele e i pèrseghi del brolo”.

Interdetto da quella “filosofia” che l’uomo non poteva controbattere, Vincenzo ripose la roncàja e i due tornarono al tema dei bachi… e dello scialle.
“Tànt laorà. Per chì, po’? Per negott.”
Eppure, argomentava Ambrosina, erano due mesi che tribulavano senza tregua, di giorno e, come ben sa chi ha a fare con i bachi, anche la notte.

Potevano contare solo sull’aiuto dell’anziana vicina di casa, Minighìna, alla quale la donna aveva promesso di far dono del suo vecchio scialle in cambio di qualche servigio. Invece, anche lei dovrà accontentarsi della mantellina usata di pèl de conécc.
Era cominciato tutto con qualche difficoltà: i bigatti si erano affrettati troppo a schiudersi, in anticipo di almeno una settimana, senza attendere che il vermicello avesse potuto nutrirsi con le foglie di gelso.

Così, oltre ad arrampicarsi sui mùr per garantirsi ampio rifornimento i coniugi avevano dovuto, ogni mattina, raccogliere anche le tenere foglie di ndìvia, la cicoria crespa che cresceva solo lungo i fossati.
Piegati sotto le ramaglie delle rive, spesso nell’acqua fino alle caviglie, avevano battuto a lungo i fossi piagandosi mani e gambe con spini di ogni sorta.
Ma in questo modo erano riusciti a far riprendere bella cera ai bachi stesi sopra le arèle innalzate in ogni stanza disponibile, camere o solai che fossero.

Era stato poi al “secondo sonno” che erano diventati improvvisamente “tristi” e allora, i tenaci coniugi si erano spinti, al rischio di precipitare, fin sopra gli spuntoni del Monte Budellone in cerca di lavanda e di maggiorana, necessarie per preparare i föm, i suffumigi adatti a curare i poveri bachi.
E via ancora con tutti gli espedienti e quei segreti tramandati da generazioni per mantenere belli quegli animaletti che si sarebbero trasformati prima in bozzoli e infine in splendida seta.

Tutto si era rimesso a posto. Allineati sulle lettiere i bachi si erano ristabiliti e da loro si attendevano ormai solo i preziosi bozzoli. Erano sorvegliati dai due e dalla Minighìna ad ogni ora del giorno e della notte: per aggiustar loro la foglia, per distanziarli un poco e comunque per osservare ogni minimo segno di turbamento.

Gonfi, e trasparenti, trasudanti la seta
già si arrampicavano lungo i rametti di gelso, i più svelti filavano già tirando il loro bravo filo a destra e a sinistra quando, una brutta notte, nel volgere di poche ore furono tutti presi dal màl del zàlt, l’implacabile malattia dell’ultima ora che li sterminò quasi tutti lasciandoli inerti sulle ampie lettiere.

Una disgrazia! La Minighina piangeva disperata – per i bachi e per lo scialle - e l’Ambrosina aveva una gran voglia di fare altrettanto. Solo Vincenzo, dissimulando un poco di calma, si era presi due pizzichi di tabacco dalla tabacchiera e se li era spinti nella pipa rammaricato e rassegnato.
Ecco, i bachi, decisamente non erano andati bene, per quell’annata.
Le dieci once acquistate una splendente mattina di aprile al marcàt di Montichiari erano svanite lasciando poche manciate di galète.

Quel modesto supplemento su cui riponevano tante speranze
e che costava loro tanta fatica oltra a ridurre camere e solai in stanze sbiancate di calce e sgombere da ogni cosa per far spazio ai catafalchi, era andato in fumo per una delle mille affezioni che i delicati animaletti presentavano ai poveri allevatori.
Tutto questo scorreva nella mente di Ambrosina e del marito quando ad un tratto il volto rassegnato dell’uomo sembrò illuminarsi.
“Macàchi che sóm! Certo che podóm compràl, el siàl…”
E così spiegò rapidamente la sua improvvisa ragionata: in effetti non avevano mai più ripensato alla rendita che spettava loro dal Tés dei Pénte su a Serle.

Questo era un fienile con qualche pianetta di terra che avevano ereditato da uno zio morto due anni prima. Fino ad allora non si erano ancora dati per inteso di riscuotere la rendita.

E già provavano a fare due conti, così, su due piedi: “dùdes franc per an, j’è zà mò ventequàter en töt, sensa quach enterès”. E questo già oltrepassava ampiamente quanto speravano di ottenere dalla vendita delle galète dei bachi.
“Vardì se sa pol fàs emburtulà a chela fòza ché!”
“Dudes franc per an. Oho, l’è on capetàl”.

E quel Loége serlì, il malghese che aveva in affitto terra e fienile, loro non l’avevano mai nemmeno visto di persona.

Detto fatto, non dovevano fare altro che salire su,
al limitare delle Cariadeghe, quasi al confine con Caino per riscuotere il dovuto. Per una settimana non parlarono d’altro che del loro, inusuale ma gradito viaggio.
Non era un viaggio da poco: dovevano prendere la via di Gavardo, ma prima dovevano scavalcare Pospesio, Marzatica, Strubiana, Prà de Bògn e poi, montare ancora per Castello e San Bartolomeo; da lì, attraversato per lungo l’altipiano di Cariadeghe, passare il Monte Dragone e, seguendo le indicazioni che si erano procurate, avrebbero trovato il Tesio dei Pènte, posseduto per generazioni dalla famiglia dei Baldini.

Erano almeno cinque ore per salire e almeno quattro per ridiscendere, una intera giornata lontani da casa, ad inverno fatto. Ormai il Natale si faceva vicino ma quello era un affare da regolare prima della ricorrenza.
Avrebbero dato da mangiare ai polli e al maiale e poi sarebbero partiti.
I Lancelotti, loro vicini, avrebbero prestato volentieri l’asino e così, rassettate alcune provviste, quella gelida vigilia di Natale, di buon’ora si misero in viaggio.

Salirono lentamente, con l’asino imbastato al passo e loro due grandemente affaticati, attraverso sentieri e pietraie, castagneti e pinete. Dopo aver chiesto informazioni a diversi malghesi giunsero al Tés dei Pénte che erano le undici del mattino.
“L’è mia on grànt bèl”, disse Messera Ambrosina tirando la redine dell’asino e osservando il fienile malridotto, con il tetto malmesso e fatto di povere pietre di medolo sconnesse.

Dal manufatto, basso e tozzo, di una condizione dimessa e anzi proprio povera, sembrava uscire un filo di fumo. Bene, voleva dire che c’era qualcuno.
“El formét l’è màgher” fece Vincenzino osservando il pianoro più in basso dove si stendeva un appezzamento invero poco florido di cereali.
“Ah potàrghi, per dùdes franc de fìto sa pöl mia pretender el Palàs del Cònt”
si affrettò a precisare l’Ambrosina. E davvero quella tenuta non aveva niente in comune nemmeno con le grandi cascine di pianura, non solo con i ricchi palazzi.

Si avvicinarono, così ragionando, tutti e tre, Vincenzo, Ambrosina e l’asino ma ciò che vedevano e che li circondava aveva l’aria di una tale miseria che l’idea di domandare denaro faceva montare in loro un poco di imbarazzo.
“Ta parlaré tè per prìm Cinsì”, fece la donna.
“Sarès mèi che ta ghéset de parlà tè Ambrusìna“.


Al loro avvicinarsi due gnàrèi malvestiti e con i capelli arruffati uscirono di corsa da un mucchio di fieno dove stavano giocando e filarono verso la casupola attraversando scalzi l’erba ancora gelata.
La madre, intenta a filare con una rudimentale conocchia spiò fuori dalla porta.
“Va sìf perdicc? Sìf dré a nà a l’ómber del Zél? L’è zó piö bàs, ghì de turnà en dré…
Cenzino guardò Ambrosina, Ambrosina guardò il marito.
Ma il coraggio venne meno a tutti e due.
Finsero davvero di essere diretti verso l’ómber del Zèl, una grande e profonda grotta che era un’attrattiva per molti forestieri su nell’altipiano di Serle.

La filatrice parve improvvisamente essere sollevata e disse.
“Signùr Madóna che gràs-cia!”
“Cridìe pròpe che sìref Misèr Vincenso e Meséra Ambrusìna Baldì”
. E, abbassando un po’ la voce..
“Perché la casa e la tera jè sò e ghòm de dàga dele palànche.”

E subito chiamò il marito.
“Loége, tà pòdet vègner föra, jè miga i patrù de Guiù”.
Loége discese dal granaio seguito dai ragazzini ai quali brillavano gli occhi timidi e curiosi.
L’uomo, trasandato in ogni sua parte, offrì ai visitatori del latte – non aveva vino! – un po’ di miele selvatico, castagne di stagione e qualche mela rinsecchita.
“L’è töt chèl che ghóm. La tèra l’è magra ché”

E poi si dilungò a spiegare la loro precaria situazione.
“Furtüna che i nos patrù i ga tormènta miga per pagà! Se nò gharèsem de slogià. I dìs che i’è bùna zét, sté Baldì de Guiù, noter j’òm mai vist. Forse vòter che vignì dal pià i cugnusìf ?”
Ambrosina e Vincenzo annuirono. Sicuro, li conoscevano i Baldini di Notica, ma solo di vista… e fecero cenno che, sì, erano buona gente…
Intanto, il sole della corte giornata invernale, cominciava a tramontare.

Occorreva prendere una decisione.
“Parla, toméra!!” – sgomitò l’Ambrosina
“Parla tè, galìna!!” – ribattè il marito
Ma né l’uno, né l’altra, parlò.

Di meglio fece la moglie di Loége
quando Ambrosina, con fare stanco, si mosse per montare in sella all’asino. Si avvicinò ai due chiedendo se per favore avessero potuto incaricarsi di una grande cortesia ritornando giù al piano. Si trattava di portare un doveroso dono a queste brave genti dei Baldini, proprietari benevolenti e pazienti. E nel dire porse alla donna un grande gallo, magro e secco che protestava la sua parte legato per le raspe.
Lo sospesero ben bene al rampino del basto… e senza troppi indugi ripartirono.

Alla sera, quando i due rientrarono a Notica con l’asino e il gallo ormai stremati, i pochi che li incrociarono sulla via li guardavano con lo sguardo sghembo dell’ammirazione interessata: “Eco i Baldì che i tùrna co l’àsen, i’è stàcc a ritirà la rèndita dei so teré”.
E nella piccola contrada, quella vigilia di Natale, in realtà, la voce corse rapida e accompagnata dai sospiri d’invidia: i Baldini rientravano dopo aver riscosso la loro cospicua rendita.

Ma quella vigilia di Natale i due Vincenzo e Ambrosina, senza dire ad alcuno del loro segreto, si accoccolarono al gran fuoco con il ceppo più grande ripensando ai miserabondi fittavoli del Tés dei Pènte.
E, in verità, tennero per loro l’atmosfera serena di quella vigilia di Natale. Forse la più serena e la più felice che mai avevano trascorso.
L’anno che venne appresso, in vero, i bachi fecero galète in gran quantità, e un magnifico scialle arrivò per l’Ambrosina che diede il suo alla Minighì.

Ma i due… non salirono mai più su al Tés dei Pénte.




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