16 Aprile 2017, 08.00
Gavardo
Maestro John

Albachiara

di John Comini

Certe notti ti svegli all’improvviso, guardi la sveglia e pensi: oh no, è ancora notte!


Allora tenti di dormire, ma più ti concentri più sei sicuro che non ce la farai. Allora ti alzi, vai in cucina a bere un bel bicchiere d’acqua. La televisione è accesa, anche di notte c’è gente che discute sui politici e sulle guerre prossime venture.

Certe notti pensi a tutto il male che c’è nel mondo, ed hai paura, e pare che tutti siano diventati cattivi e sudi freddo al pensiero che la Storia non ha insegnato proprio nulla, e basta qualche potente per distruggere questo povero vecchio mondo.

Certe notti pensi alla vecchiaia galoppante, e a quando da bambino dicevi le preghiere della sera: “Angiolino mio carino vieni qua sul mio cuscino, fa che dorma in compagnia di Gesù e di Maria. Gesù mi metto nelle tue mani, tienimi stretto fino a domani”. E ricordi quando il papà, mentre eri a letto, ti raccontava di quando era scappato dal campo di prigionia in Polonia, e aveva incontrato un ragazzo russo ubriaco e con il mitra in mano. Teneva una sveglia al collo, stava per sparargli ma per fortuna è arrivato un altro russo che ha dato due ceffoni al ragazzo e mio papà si è salvato. Mio papà che saltava nel letto felice, coi suoi mutandoni di lana, lui che aveva fatto la guerra, lui che aveva sofferto e fatto mille sacrifici per tirare avanti la baracca della famiglia.

Certe notti pensi a quando la famiglia Comini andava a letto, e c’era un concerto notturno: mia zia Giulia in sogno vendeva le scarpe e diceva: “37, 37 e mes”, mia sorella ogni tanto aveva degli incubi e gridava, mio nonno si svegliava alle tre di notte e voleva andare a Messa, mio fratello Dino tornava tardi e mia mamma stava in piedi ad aspettarlo per non far gridare mio papà, il quale ogni tanto faceva strani concerti notturni, contrappuntati da mia mamma che per digerire andava avanti e indietro per il corridoio dicendo il rosario. Se si pensa che mia sorella dormiva con la luce accesa, per cui si è resa necessaria una coperta appesa alla porta a vetri, e se si aggiunge che io cadevo spesso e mia mamma mi metteva le sedie attorno al letto come riparo, potete immaginarvi la vita notturna di casa Comini: altro che New York by night!

Certe notti pensi che il mondo non cambierà mai, ma poi ti viene in mente la canzone di Lucio Dalla…
“Balla balla ballerino tutta la notte e al mattino non fermarti…
Prendi il cielo con le mani vola in alto più degli aeroplani
non fermarti. Sono pochi gli anni forse sono solo giorni
e stan finendo tutti in fretta e in fila non ce n’è uno che ritorni.
Balla non aver paura  se la notte è fredda e scura
non pensare alla pistola che hai puntato contro…
Balla il mistero di questo mondo che brucia in fretta
quello che ieri era vero, dammi retta, non sarà vero domani…
Balla anche per tutti i violenti veloci di mano e coi coltelli,
accidenti. Se capissero vedendoti ballare
di essere morti da sempre anche se possono respirare...
Allora vieni angelo benedetto prova a mettere i piedi sul suo petto
e stancarti a ballare al ritmo del motore
e alle grandi parole di una canzone, canzone d’amore.
Ecco il mistero, sotto un cielo di ferro e di gesso
l’uomo riesce ad amare lo stesso e ama davvero
senza nessuna certezza
che commozione, che tenerezza…”

Certe notti pensi al detto “Se ognuno portasse in piazza la sua croce, tornerebbe a casa con la propria”… e pensi a tutta la gente che sta soffrendo in questo momento e al grido di aiuto che arriva da tutti gli angoli della Terra.

Certe notti pensi ai tuoi bambini che in quel momento staranno dormendo, e li rivedi uno ad uno, belli e sorridenti, e pare che ti dicano di non disperare, di credere ancora nella vita.

Certe notti ti svegli, ma poi senza accorgerti, come d’incanto ti riaddormenti, fin quando vedi la luce filtrare tra le ante…è un’alba chiara…è un nuovo giorno…è Pasqua…forse si può ancora sperare…

“Gesù, ci dissero un giorno
che eri morto, morto per sempre
insieme a Dio, tuo padre  che governa i cieli e il tempo.
Eri morto, ci dissero i padri, morto come muore ogni mito sulla terra
Così fu il vuoto intorno a noi e dentro noi…
fu come quando il vento impazzisce e tutto spazza via
soli restammo chiusi tra la noia e la paura
aggrappati a paradisi artificiali trovati in una stanza di luce nera
e così ti abbiamo perduto  ti abbiamo aspettato
ti abbiamo cercato e abbiamo trovato te, ritrovato te
nell’occhio delle stelle, nel sapore del mattino
fra l’erba tenera dei prati e nel dolore di chi soffre
nel sorriso di chi ama, nella fame di chi ha fame
nelle canzoni popolari e nella musica di Bach…
e nei sospiri di un amore  e nei colori dell’arcobaleno.
E fu come riavere la vista dopo mille anni
fu come scoprire là nella boscaglia folta il sentiero perduto…
Gesù, caro fratello ritrovato restami accanto per sempre
e cantiamo insieme, cantiamo insieme la gioia d’esser vivi.
E cantiamo le tue immense parole
ama il prossimo tuo come te stesso
E cantiamo le tue immense parole
“ama il prossimo tuo come te stesso”…  (Mia Martini, “Gesù caro fratello”)

Qualche sera fa c’è stata la processione delle Quarantore. Mi son sempre piaciute le processioni, come quella di San Rocco o del Corpus Domini. (Le foto si riferiscono al “piccolo clero” insieme a Monsignor Ferretti e ad alcune processioni fotografate dal mitico Cesare Goffi).

Alle “processiù” c’era sempre un sacco di gente, praticamente tutto il paese. C’era il sagrestano, el Burtulì. La chiesa era addobbata con paramenti altissimi e molto scenografici. C’erano schierati i paggetti, i chierichetti, i tarcisiani, massima aspirazione di noi bambini: si faceva a gara a chi teneva “el turìbol”, come consolazione c’era la navicella, piccolo vaso argentato dove viene conservata la scorta di incenso. C’era la banda, i notabili del paese, c’erano le orfanelle, c’erano le vedove inconsolate…“avanti le vergini”! Davanti alle case la gente preparava gli altarini con le tovaglie ricamate, piene di fiori, di lumini e di immaginette. I davanzali erano illuminati: che spettacolo! Davanti alla processione c’erano le pie donne col velo nero e lo stendardo, dietro la banda, seguita dai chierichetti e dai preti, e infine il baldacchino con dietro tutto il popolo di Dio che cantava: “Mira il tuo popolo o bella Signora che pien di giubilo oggi ti onora. Anch’io festevole corro ai tuoi piè o Santa Vergine prega per me.” Allora vedevi la statua de San Rocco andare in giù dagli scalini della chiesetta di San Rocco, e il giorno dopo la statua della Madonna che traslocava e allora andava in su, mentre le campane facevano “den den den den” e la gente cantava “Dalle capanne povere dove si piange e implora…”. Alla curva delle processioni, quando vicino alla pesa pubblica si faceva l’inversione a U, il corteo da sacro diventava profano, e si potevano lanciare occhiate furtive verso il reparto femminile. Una canzone che mi è rimasta impressa è l’inno dell’Azione Cattolica dedicata al Papa:

“Bianco Padre, che da Roma
ci sei meta, luce e guida,
in ciascun di noi confida,
su noi tutti puoi contar.
Siamo figli della Fede,
siamo araldi della Croce;
al tuo cenno, alla tua voce
un esercito ha l’Altar.”

Dimenticavo: il martedì santo, mentre mia moglie andava alla processione, io me ne stavo in casa coi miei nipoti a vedere Juve-Barcellona...che goduria! Peccato che ci sia il ritorno...
Ormai pochi bambini sanno il dialetto, magari lo capiscono ma certamente non lo parlano. I miei genitori si sono sforzati di parlarmi sempre in lingua italiana, mentre tra loro e con i miei fratelli maggiori parlavano in dialetto.

Il fatto è che noi Comini proveniamo da Salò, e quindi in me si sono mescolati i suoni aperti come “Nom en Fòsa che ghè le aole del lac” con fonemi chiusi come “Te set nasit col cűl end’èl botér”. Mia moglie parla spesso in dialetto con le sorelle e le amiche e senza saperlo è divenuta una co-autrice di alcune battute (che io poi ho messo negli spettacoli del Gruppo Teatrale, di Vestone o della Signora Maria). Un vero choc dialettofono l’ho avuto appena sposato, quando mia moglie, indicandomi un maglione che indossavo, esclamò: “Ma vedett mia che lè spösa che el rènega!?” Come hai detto, scusa? “Lè spösa che el rènega!”. Quasi rimango secco: è proprio vero che la lingua ne uccide più della spada!
Ma il colpo mortale me l’ha dato quando, mentre ero in bagno occupato in tutti i sensi, ha aperto la porta di colpo e pettinandosi davanti allo specchio mi ha chiesto: “Che fom chì de mangià anchè?” Cos’era, uno scioglilingua? Io ho risposto ridendo: “tichet-i-tac-tachem-i-tac-tachetei-tè-i-tò-tac-Me-tacat-i-tac-a-te?-Tachetei-te-i.to-tac!” Lei si è girata, mi ha guardato in tutto il mio splendore ed ha esclamato: “Che te sciòpa?”
Il colpo di grazia è venuto quando stavo costruendo la casa, mio cognato mi ha chiesto: “John, endoe voet meter le béole?” E io, non sapendo cosa fossero le béole: “Non saprei, decidi tu”. E lui: “Te set te el padrù!” E io allora: In cucina? E lui: En cusina? E io : “Allora in garage!” E lui scuotendo il capo ridendo: Te ghet voia de rider! Ma che ne sapevo io che le beole fossero le betulle! Io sono un uomo di condominio, non di campagna!

Un tempo, quando i bambini parlavano il dialetto, i temi erano una miniera di strafalcioni.  Mi sono dilettato a riscrivere un in “italiacano”:
“Cara maestra, è stato bello vignire a scquola, che belle orine che ho passato con lei. La ringrassio anche dei scopelotti perché quan che la maestra dà i scopelotti è segno che ci vuol bene, e lei mi gha voluto tanto tanto bene. Spero di non essere bociata e mio bubà ci ha detto che lei ha i baffi e la puzzola sotto il naso  ma è brava che adopera la stanghetta che così mi matura la zucca. La mia mamma mi dice sempre: eh pazienza, anche se verrà bocciata ripeterà l’hanno, ci sono delle cose più gravi nella vita. E dopo me ne dà un sacco e una sporta.

Il mio bubà col fucile trarra e ciapa tanti oselli che poi mia mamma fa allo spiedo, anche se dice che il mio bubà l’è uno spiet…ma sensa osei.
La mia mamma è giabella tre dè che non riesce a sedersi, in confidenza le sono uscite le amoroidi…E’ andata dal sior dottore e lui l’ha visitata e lei ci ha detto Dutùr, pota, ghal de vardà propris lè! e lui ci ha risposto: Pota cara, la prossima olta fat vegner la tonsillite che te arde da un’otra banda! Ieri con una sedella ero dietro a andare nel campo perché il mio bubà stava insornando il formet, siccome si è niscorzito che non ho mica fatto il compito il mio bubà era inverso e me ne ha dette di cozze e di crude e mi voleva dare dei begli sganassoni, mi ha corrito dietro e io sono stata brava a non farmi ciapare e non è stato buono a rivarmi per le caedagne.

Mentre venivo giùnno dalla rata, si sono aperte le cataratte del cielo e è venuta gù tanta di quell’aiva che ha fatto tante pocce e io sono biuscata e ho fatto uno scurmartello dentro una poccia e mi sono rompita il collo e enfinamai  mi facevano male le nacchere. Sono stata proprio disfortunata, la mamma è strumita e io mi sentivo stofegare, per fortuna che ho gomitato.
Speriamo che quest’estate il tempo tenga e che a giugno non diventi nigolo che magari è bello e buono anche di andare a piovere... Se io fodesse in lei mi darei la promosione così vado fuori dalle storie e non mi vede più. Adesso finisco la lettera perché la luce sbarbella. Tornando indietro un ciapello, volevo dirci che io so di non essere proprio uno sterco di santa, e mi piaceresse tanto di fare la maestra come lei.”
E già che ci sono, vi scrivo una bellissima poesia del grande poeta e umorista bresciano Angelo Canossi. S’intitola “Le “carmelitane” a la mèssa dè s. Faustì”

-Òho! mèza mèsa ‘ndada ‘n-dèl balù!                         (perduta)
Ah nò?...Dise, tè ocór èl canöcial?
Varda ‘ndô ‘l-è ‘l mesal!...
Dèl rèst po’, nèh, ‘l-è bu a’ ‘n ciapèl apéna:             (anche un pezzo soltanto)
basta scultàla ‘n po’ con dïusiù,
Ave Maria…La Ines!...gràzzia piéna…
Ma varda chè manièra
dè mitìs sö ‘l capèl!
Dòmino stécom… Sè la c’è!!! Pò pò,                      (che superbia!)
chè rasa dè capèl!
Èl par öna taéra                                            (tafferia, largo piatto di legno per polenta)
söl có dè ‘na baléna
cón vulat sö ‘n-osèl.
Beneditta…Tè par? dìset dè nò?
tui mulièribus…Smìcia sé l’è gòfa!
E benedittus…Chi? Chèl vistit lé?
‘l-è chèl dè ‘l-an passat, tèl dise mé:
èl gha pèrs èl cangiant,
ma vàrdel, ‘l-è amò chèl:
sfrutu svèntri tuièsu…l’è ‘na stòfa,
dè giü e quaranta al méter a fà tant.
Santamaria…Ghè ‘ndéssel almanc bé!
Ma adès la s’è ‘ngrossada
che la fa pòra a ardàla…Materdei…
Tè ‘l sé, nèh, chè ‘l tenènt èl l’ha ‘mpiantada?
Za, ‘l-éra dè saìl; lü ‘n moscardì             (già, era da sapersi, lui un damerino)
e lé cón chèl so fare dè ronchéra!
La pöl bé ‘ndà ‘n taéra
cón guarnizziù dè osèi,
cón fibie e tachitì,
ma l’è sèmper ön tipo dè söpèi.
Santamarìa…Ma certo! materdèi,
óra pronòbis…Ciào tenènt! Notìzzie!
Èmmaginàss! cón d’ön galèl compagn
èn sérca dè primìzzie!
Èl starès frèsc a ‘lü sè ‘l ghès dè hìga
‘na baléna compagna ‘n-dî calcagn!...                           (nelle calcagna)   
Òho, tè recórdet miga
quand chè ‘l cöntàa a töcc chè la so móra
la ghia dèi fianc perfècc cóme ‘na bòssa?
pronòbis  picatòribus…Adès,
adès chè la fa póra
dè tat chè l’è besénfia e grassa e gròssa,
èl paragù chè ghè ‘ndarès ‘n cana,                       (a perfezione)
secóndo mé, ‘l sarès
a dìga “damigiana”!
nunchetinóra…Móstro, sé ‘l fa prèst
sté cörat! èn du bói ‘l-è al “missa èst”!             (in un attimo è alla fine)
nunchetinóra…’Nsöma, tömen dàmen,             (in fin dei conti)
le va amò mèi le magre, s.cèta mia!
nunchetinóra mòrtis nòstre-àmen!
Ciào, nèh, sé edóm al Cine co’ la Cia.
Patri-sfili-spiri-tuissanti-àmen!

È Pasqua. Tutti dicono che bisogna cambiare…Lo ammetto, è una delle cose più difficili. E sì che ne ho vissute di Pasque e Pasquette. Un tempo vivevo immerso nella religiosità. Come scriveva Meneghello…”E i misteri, e i comandamenti, e i precetti, e i sacramenti, e le virtù teologali e cardinali, che non sono quelle praticate dai cardinali, ma sono i cardini della vita buona, la temperanza (respinta l’assurda idea che riguardasse in qualsiasi modo l’abilità di temperare le matite) e i peccati veniali, e i peccati mortali, e le devozioni, e le comunioni, e l’esposizione del Santissimo, e le processioni, e i rosari, e le litanie, e le giaculatorie...si lucrano 330 giorni per le anime del purgatorio...e il venerdì di magro, e i fioretti, e gli angeli e gli arcangeli Michele e Gabriele e Raffaele...Questo sistema è fondato sull’inferno, che è eterno, si viene tormentati per 10 anni, poi per altri 10, poi per altri 100, poi ancora per altri 100, e poi si continua.Esiste però un meccanismo per sottrarsi a questo schema: la confessione.”

Mi vengono in mente alcune battute
dello spettacolo “W il parroco!” con l’amico Gaetano Mora (ciao Tano, adesso la Pasqua la festeggi in Paradiso). 
-“Quand Gesù l’è resuscitat si fece vedere prima dalle fomne, perchè cosè el faa piè prest a difonder la notizia!
-Chela fomna la disia che la lussuria è il peccato capitale di chi vive nel lusso, l’accidia fa parte dell’acidità di stomaco e la fornicazione l’è una strage de furmighe…
-Se qualcuno ti da uno schiaffo, porgi l’altra guancia… e dagli un calcio nei cosiddetti.
-La disia che le stagioni iera ses: Primavera, estate, autunno, inferno, purgatorio e paradiso.
-E quella betonega che diceva: “Me ensoma dise: töcc che roba, töcc che còpa, töcc che inquina, tecc che se droga…ma me me domande: endoe narom a finì?” E il parroco: “En Paradis, me spere!”

 “Se guardi nel buio a lungo, c’è sempre qualcosa…” (William Yeats)

Buona Pasqua di speranza e di pace a tutti voi, o miei 25 lettori…
E forza maestra Carolina, siamo tutti con te!

Ci sentiamo la settimana prossima, a Dio piacendo

maestro John Comini



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