26 Gennaio 2008, 00.00
O
Anniversario

1943-2008: 65° della battaglia di Nikolajewka

Sono trascorsi 65 anni dal 26 gennaio 1943, data in cui si svolse la fatidica battaglia di Nikolajewka, una delle pagine più dolorose della Seconda guerra mondiale, che vide gli uomini dei battaglioni alpini Vestone e Valchiese comportarsi eroicamente.

Sono trascorsi 65 anni dal 26 gennaio 1943, data in cui si svolse la fatidica battaglia di Nikolajewka, una delle pagine più dolorose della Seconda guerra mondiale, che vide gli uomini dei battaglioni alpini Vestone e Valchiese comportarsi eroicamente.

Nell’aprile del 1943 il più diffuso ed autorevole quotidiano italiano del tempo, il Corriere della sera, pubblicava in prima pagina una corrispondenza dal titolo: Nuova gloria agli alpini dalla guerra d’inverno in Russia, dedicata alle gesta dei militari italiani impegnati sul fronte russo. L’articolo, apparso nell’edizione del 29 aprile 1943, occupava tre intere colonne ed era firmato da Cesco Tomaselli, uno degli inviati di punta del quotidiano milanese. In quella corrispondenza il giornalista tracciava un quadro appassionato e puntale degli avvenimenti che nell’inverno di quell’anno avevano visto protagonisti gli alpini della Divisione Tridentina, comandata dal generale Reverberi. Da quella corrispondenza di guerra estrapoliamo la parte dedicata alla battaglia di Nikolajewka.


Quattordici volte gli alpini si sono conquistati il passaggio facendo una battaglia, per questo la loro si chiamerà la marcia delle quattordici battaglie, di cui l’ultima fu terribile. Il nerbo della colonna marciante era la Divisione «Tridentina», formata dai reggimenti Quinto e Sesto coi propri gruppi di artiglieria alpina. Tutti a piedi, anche i generali; i muli erano per i pezzi, le poche slitte per i feriti e i congelati. Come un fiume che scorrendo in un letto ghiaioso guida le acque col filo della corrente maestra, la quale distingui per la tinta più cupa e per un che di gagliardo e di tagliente nel passo, così quei due reggimenti di lombardi e di veneti, che avevano potuto sganciarsi dal nemico in migliori condizioni, vertebravano la massa incolonnata dei migliori nuclei, reparti della «Julia», della «Cuneense», della divisione di fanteria «Vicenza», infondendo tenacia e risolutezza. In testa marciavano i colonnelli. Scarno, aquilino, intrepido quello del Quinto, al cui fianco era sempre il nostro caro Novello, che da tempo lasciato la matita e i pennelli, per venir a fare la guerra in Russia; alto, bruno, armonioso di fattezze come un atleta olimpico quello del Sesto, che trascinava col sorriso.

Fra l’avanguardia e la retroguardia andava e veniva indefesso il comandante della Divisione, un giovane generale tutto nervi e sguardo, esperto di dottrina ma non meno dell’arte di animare e condurre. Non mai si videro uomini al sommo della gerarchia militare così strettamente accomunati coi loro gregari, e senza il minimo privilegio che non fosse quello di in ogni istante allo sbaraglio. In mezzo ai suoi ufficiali, tutta la gente pronta a fargli scudo del proprio petto nei frangenti critici, marciava il comandante del Corpo d’Armata, un generale valoroso, che l’energia modera col tratto affabile e la severità mitiga con la cadenza della parlata feltrina. Dinamico per natura, tanto da parere azionato da una batteria elettrica, era Martinat, il capo di Stato Maggiore, che da un mese messo su la greca di generale e tuttavia non s’era allontanato dal Corpo alpino, aspettando che si facesse libero un incarico corrispondente al suo nuovo grado; valdese di nascita, secco di persona, con gli occhi chiari e un pizzetto biondo, Martinat aveva del dovere un concetto così puro, così assoluto, così ascetico che lo stare nel pericolo diventava in lui una condizione normale dell’essere.

Che cosa diedero di sé questi comandanti, e altri che vedremo, per guidare la colonna, tenerla in pugno, suscitare negli abbattuti le ultime once d’energia, esigere dai validi l’estremo sforzo, e durare nella fatica, nella rinuncia, nella sofferenza, nel pericolo, Dio solo lo sa. Il penultimo giorno, quando la resistenza fisica e morale aveva oltrepassato ogni limite umano, la congiunta avversità del nemico e dell’inverno si riprodusse sotto una forma che sgomentò anche i più risoluti. Mancavano poche ore al crepuscolo, rapido, fatale sarebbe stato di lì a poco il passaggio da un pomeriggio senza sole, incrudelito dal vento, a una notte gelida, orrenda. Il paese cui tendevano, che doveva trovarsi al termine di quel tavoliere bianco, squallido, spalancato da tutte le parti, era in mano del nemico? Non conveniva illudersi, giovava sapere che l’occupazione fosse debole, che una scrollata bastasse a scalzarla. Per un poco ancora i marcianti videro neve e gambi stecchiti di girasole dinanzi a sé, poi d’un tratto, fenomeno frequente da queste parti, si trovarono affacciati ad una balca, cioè ad una conca, nel cui fondo passava una ferrovia e sorgeva un grosso paese, quasi una città. Nikolajewka.

Cinque minuti non trascorsero che l’agognato asilo divenne una visione d’inferno. I russi stavano già là, erano venuti prima per preparare l’accoglienza. Questa era stata così bene architettata che non appena le nostre avanguardie si affacciarono alla conca, il fuoco di artiglieria e di mortai che tosto si accese fu seguito a breve distanza da una prima incursione di aerei a bassissima quota, che passavano e ripassavano mitragliando e sganciando. Nella colonna ci fu un arresto, poi un rigurgito, proprio come avviene all’acqua se incontra un ostacolo. Dal nemico fu intuita la crisi, e allora non ci fu remissione. Addosso coi mortai, coi cannoni, con le bombe dall’aria, finirla una buona volta con questo Corpo alpino che radio Londra, più avventata di radio Mosca, aveva già dato per rinchiuso, sgominato e fatto a pezzi. E quella avrebbe potuto essere la catastrofe degli alpini, se una volontà indomita non avesse animato i loro comandanti e gli ordini non fossero stati eseguiti con lo slancio e l’abnegazione che il momento esigeva. Primi a dar l’esempio furono gli artiglieri col piazzare i pezzi sull’orlo della conca e iniziare un tiro spavaldo, spudorato. Subito dopo un battaglione della «Tridentina» andò all’attacco. Non ce la fece. Barricati lungo la ferrovia, i russi avevano fatto caposaldo di un passaggio a livello, e bloccavano gli altri accessi del paese. Fu allora richiesto all’unità tedesca facente parte della colonna l’impiego di qualche anticarro per sgretolare il caposaldo. Da parte degli alpini si sarebbe fatto un supremo sforzo al centro ed alle ali.

È tempo di serrar sotto, perché il sole volge ormai al tramonto. I battaglioni sono pronti, si spiegano. È in avanguardia il Tirano con la compagnia reggimentale del Quinto, in rincalzo l’Edolo. Non si aspetta che l’ordine d’attacco. Ed ecco che uno dei nostri, un uomo secco, vivace, arditissimo, vien visto balzare su un trattore anticarro brandendo un moschetto. Chi è? Che vuole fare? Un istante dopo un grido elettrizzante scocca da quel podio d’acciaio. «Tridentina avanti». È il generale Reverberi, il comandante della Divisione, che getta se stesso allo sbaraglio perché l’esempio d’anelito all’impeto. Non fu mai visto assalto più disperato. Era il fumo e vampe degli scoppi, entro una trama fischiante che fulmina l’aria e la terra, gli uomini si buttano giù per il pendio, infilano le pieghe del terreno, cadono, si rialzano, manovrano, sono alla ferrovia, piombano come belve sui nuclei russi, si aggrappano ai margini dell’abitato, espugnano le prime case. Il colonnello del Quinto va avanti con un polpaccio traforato da una scheggia di mortaio. Gli ufficiali sono al tempo stesso trascinatori e trascinati. Ciò che importa è far presto, far presto. Commisto agli uomini della compagnia reggimentale un alpino, coi gradi di generale sulla manica del pastrano, incita alla foga. È Martinat. Il suo posto non poteva essere che nel frangente dell’ondata. Mio Dio, come la parola s’aduggia, arzigogola rispetto alla battaglia che è sintesi d’attimi. Un battito di secondo, e Martinat non è più in piedi. Un alpino che gli vien dietro cerca di accostarlo, ma deve appiattarsi dietro un ciglio, perché la neve spumeggia come l’acqua sotto una sassaiola. Dopo un po’ issandosi adagio, gli riesce di afferrare una gamba e di tirarla. Un corpo inerte gli arriva addosso, gli cade tra le braccia. Il generale è ormai è tra quelli che non si rialzeranno più. Egli non udrà l’urlo degli alpini che hanno sbaragliato i russi, occupato il paese, catturato cannoni e mortai, messi in fuga i resti di tre reggimenti, spezzato il cerchio, vinta la battaglia per il tetto e per il passaggio, recuperata la libertà.

Cesco Tomaselli

Cesco Tomaselli – Giornalista (Venezia 1893 – Milano 1963). Dal 1925 fu inviato speciale del Corriere della Sera, e in tale veste seguì il primo volo esplorativo di Nobile sul dirigibile Italia alla Terra del Nord (1928). Molti dei suoi articoli furono riuniti in volume: Inferno bianco, Gli ultimi di Caporetto, La ritirata in Russia, ecc.


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