25 Maggio 2015, 07.13
Valsabbia
Briciole di Cultura

E se il Tintoretto avesse origini valsabbine? Un' ipotesi affascinante

di Alfredo Bonomi

Chi, visitando Venezia, vuol approfondire la conoscenza della pittura veneta del 1500 non può tralasciare la visita alla Scuola Grande di San Rocco


Ruskin, che è stato determinante del diffondere nel mondo l’immagine di Venezia nel xix secolo dopo il terribile tracollo economico e sociale subito dalla città a seguito della fine della Serenissima Repubblica, la considerava uno dei tre monumenti artistici più importanti d’Italia, insieme alla cappella sistina ed al camposanto di Pisa.

L’impatto emotivo della visita è fortissimo.
I marmi dei pavimenti, lo scalone d’accesso al primo piano, gli intagli lignei dorati, ma soprattutto i più di 50 teleri dipinti tra il 1564 ed il 1587 da Jacomo Robusti, detto il Tintoretto (1519-1594) formano un insieme da capogiro, un vero miracolo d’arte e di magnificenza.

La Crocifissione dipinta nella sala “dell’Albergo” nel luogo cioè dove concretamente si manifestava la carità della “Scuola”, ha suggerito allo scrittore Henry James la seguente espressione: «sicuramente nessun dipinto al mondo contiene più vita; dentro ad esso c’è tutto».
Questo concentrato d’arte fu dovuto alla fede dei confratelli della “Scuola”, al desiderio di mostrare, attraverso tanto sfarzo, la solidità economica dei ceti “cittadineschi” della città, cioè di quelle famiglie non nobili, ma ricche di attività, di censo e di potere, che con la pratica della carità verso i bisognosi partecipavano in modo determinante alla vita della città.

Jacomo Tintoretto, pittore infaticabile, che voleva imporsi come alternativo al grande e potente Tiziano, nelle sue moltissime opere, mostra una tendenza scenografica, quasi “un gran teatro della vita e della storia”, con prodigiosa capacità espressiva.
Per questo è annoverato tra i grandi protagonisti della pittura veneta.

Quel che è meno noto però è il fatto che la famiglia del pittore aveva origini bresciane e forse valsabbine.
Dobbiamo agli approfondimenti condotti da Miguel Falomir Faus del museo del Prado di Madrid ed ai meticolosi e coinvolgenti lavori di Melania G. Mazzucco la scoperta della radice bresciana del prolifico pittore che ha così ben interpretato la sensibilità del potere veneziano e dei confratelli della Scuola Grande di San Rocco.

La famiglia di Jacomo non era veneziana e non si chiamava nemmeno Robusti.
Come si apprende dalla “Genealogia della casa Tintoretto”, conservata nel sec xvii dai discendenti, andata poi dispersa, ma citata dagli storici dell’arte del tempo, la famiglia era originaria di Brescia, meglio della provincia, ed in specifico di una valle con un “piccolo lago”.

Uno zio paterno alla fine del Cinquecento conservava ancora in quel di Brescia delle proprietà. Il cognome originario era Comino. Secondo la “genealogia” due fratelli, Comino, il maggiore Battista ed il cadetto Antonio, lasciarono il Bresciano per combattere con le truppe veneziane durante l’assedio di Padova del 1509.

Quell’anno fu il più tragico della millenaria epopea di Venezia con la battaglia di Agnadello. Vicino a Cremona, le truppe della Lega di Cambrai, alla quale aderivano tutti i nemici di Venezia (l’Imperatore del Sacro Romano Impero, Massimiliano d’Asburgo, il re di Francia Luigi XII, la Spagna, il Papato, i Gonzaga, i Savoia, Firenze e l’Ungheria) inflissero alle milizie della Repubblica, isolata e già colpita dall’interdetto papale, una sconfitta terribile e ne invasero il territorio.

La catastrofe del 14 maggio significò la perdita di quasi tutti i possedimenti di Terraferma.
La sorte della Repubblica pareva segnata e la città, che si riteneva imprendibile, vide le truppe dei nemici giungere in laguna. Un senso di profondo sgomento attraversò tutta Venezia. Però, nel momento più tremendo di tutta la sua storia, Venezia seppe ritrovarsi.
Con un abile stratagemma il 17 luglio 1509 i veneziani riuscirono ad entrare a Padova, nodo strategico per la difesa di Venezia.

Comprendendo che stava per scoccare l’ora fatale per la Repubblica,
il Doge si recò nel Maggior Consiglio e spiegò che se i nemici riconquistavano Padova era certa anche la presa di Venezia e quindi la fine della Repubblica.
La mobilitazione fu generale. Nobili, operai dell’arsenale, i figli del Doge, popolari, artigiani e mercanti, un totale di 10 000 persone, si misero in marcia verso Padova e, giuntivi, vennero organizzati per la difesa della città.

L’esercito dell’Imperatore giunse sotto le mura e fu richiesta la resa della città. Al rifiuto iniziò un durissimo assedio con attacchi alle porte, martellamento delle mura a colpi di cannone. La resistenza fu eroica, oltre ogni immaginazione. Secondo la “Genealogia”, Battista ed Antonio Comino, padre e zio di Jacomo, giunti volontari da Brescia, difesero con estremo valore, insieme ad altri, la porta detta “Coda Longa”. Negli scontri lo zio Antonio morì.

Vista la resistenza della città, non prevista (l’orgoglio di difendere uno Stato percepito come la propria cara Patria!) il 2 ottobre del 1509 l’Imperatore Massimiliano tolse l’assedio e ritornò in Germania.
Padova era libera, Venezia salva.

I due fratelli Comino avevano combattuto con tale forza e coraggio da meritare il soprannome di “Robusti”.
Dopo la partecipazione alla difesa di Padova, sempre secondo la “Genealogia”, Battista scelse Venezia come propria patria e trovò un impiego nella fiorente industria tessile della città.
In seguito lo raggiunsero gli altri fratelli. Battista, padre di Jacomo, si inserì meglio di tutti nel meccanismo economico di Venezia. Secondo i biografi del figlio cominciò con “l’arte della lana”, poi passò alla seta e divenne gestore di una tintoria.

Sposò una donna “ben nata”, appartenente alla borghesia veneziana.

Nel giro di pochi anni l’immigrato bresciano sarebbe stato accettato nella classe dei cittadini, alla quale sarebbe riuscito a farsi assimilare.
La cosa è un po’ dubbia considerata la rigida divisione in classi sociali degli abitanti di Venezia.
Dalla moglie ebbe ben 22 figli e Jacomo era il maggiore.

Il cognome Tintore e poi il nomignolo Tintoretto assunto da Jacomo è il segno dell’attaccamento alla figura del padre «ser Battista Tintor».
Il giovane Jacomo dopo una brevissima presenza nella bottega del Tiziano, da lui escluso, secondo la tradizione, per invidia, perché troppo bravo e quindi un pericolo che poteva oscurare la fama del grande cadorino, da autodidatta, iniziò una vicenda pittorica continuata poi per tutta la vita con una straordinaria produzione e con grande successo dopo l’iscrizione alla “Faglia dei Pittori” intorno al 1537.

Rimane da chiarire quale valle bresciana potesse essere la culla della famiglia Comino, prima di diventare “di Venezia”.
La presenza di un “piccolo lago” suggerisce l’ipotesi che possa essere la Valle Sabbia anche perché il lago d’Iseo all’inizio della Valle Camonica non è un piccolo lago.

Certo si tratta per ora di una ipotesi, ma questo basta per concludere che nelle vene di un grande ingegno, quale fu Jacomo Tintoretto, scorreva sangue che richiamava non solo Brescia ma il suo territorio.
Può essere una provocazione per concludere che l’intelligenza e la creatività non sono strettamente legate alla geografia anche se da questa vengono favorite e stimolate.

Maggio 2015 - Alfredo Bonomi 

.in foto: il miracolo di San Marco





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