24 Marzo 2014, 06.40
Sport

Elogio del rugby

di Marisa Viviani e Luciano Saia

Il re è morto, viva il re! E' questa la formula di rito con cui il cerimoniere della monarchia francese annunciava al popolo la dipartita del sovrano e l'avvento al trono del suo successore


... In senso lato l'espressione indica la continuità nel tempo di un fenomeno (istituzione, concetto, idea, movimento, ecc.), attraverso chi ne raccoglie l'eredità (politica, ideale, morale, pratica).
Riferendoci all'articolo di domenica 16 marzo (Il Rugby è morto, W il rugby), se Il Rugby è morto, e noi speriamo che quello che abbiamo visto praticare dalla Nazionale Italiana in questi ultimi tempi lo sia, ci auguriamo che continui a vivere in futuro nella sua rappresentazione migliore.

Pertanto, più che mai W il Rugby, che possa rivivere attraverso un rinnovamento e una rinascita che in tanti ormai auspicano e richiedono.
I commentatori sportivi sono infatti unanimi nel giudizio molto negativo sulla prestazione italiana nel Torneo delle Sei Nazioni, la quale rappresenta simbolicamente, e di fatto, lo stato della gestione di questo sport da parte della FIR; a questo proposito, ad esemplificazione, vedasi in sintesi l'articolo allegato.

Lungi da noi quindi l'idea della fine di uno sport grandissimo, a cui guardiamo personalmente con uno spirito certo romantico e ideale (e ruspante), ma che sappiamo ben valutare nella sua oggettiva specificità.
Che si diffonda quindi anche nella Valle Sabbia, auspicabilmente nel settore giovanile che potrà beneficiare delle valenze formative di questo sport, duro, ma leale e collaborativo.

Se qualche appassionato di rugby o curioso di questo mondo bislungo avesse voglia di proseguire la lettura, si butti allora nella mischia e legga il racconto che segue, che è datato, ma che rende bene l'idea di questo sport collettivo che ha affascinato e coinvolto tante generazioni di rugbysti, perché il rugby, prima ancora di essere un'attività fisica, è uno stato mentale.

Marisa Viviani e Luciano Saia                                                                           
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Dalla Mischia

Davanti allo stadio di Bologna è un solo colore giallo e nero.
Tutto il rugby bresciano è qui a tifare per il Calvisano, prima squadra bresciana, di provincia, a pretendere lo scudetto dopo quasi trent’anni dal Brescia Campione d’Italia.

Non manca proprio nessuno, mi tremano le ginocchia per l’emozione e non solo per il gran finale contro il Treviso, è il ritrovarsi tutti insieme, come un’unica squadra, è rivedersi, è riconoscere nel cinquantenne brizzolato il pilone spacabàle del Gussago di quando giocavo io, o nel bestione di un metro e novanta la seconda linea del Lumezzane, che oggi bisognerebbe sollevare con l’argano perché il metro e novanta ce l’ha di circonferenza, o nel bel fisico da terza, atletico e in piena forma, il ragazzino mingherlino che allenavo vent’anni fa e che aveva vergogna a levarsi le mutande per fare la doccia insieme ai compagni.

Già, perché io li conosco quasi tutti questi qui del rugby, i vèci di certo, quelli dai quaranta in su, beh, alcuni non li riconosco subito, non li vedo da vent’anni, poi basta che uno mi saluti, Ciao “Che”, che la memoria torna subito.
Sì, perché, a me, mi riconoscono tutti, Te sét sèmper chèl, fisichèt de l’òstia, e pensà che se te gherét dés chili de piö…, Zügàe mia con i bròc come té, ciavàdo; e così via, una battutaccia dopo l’altra in tipico stile rugbystico modulato su registro brescian-popolare, ché nel rugby le battute si sprecano, e sono quasi sempre pesanti, tanto nessuno si offende, essere uomini di spirito è un altro prerequisito di compatibilità con questo sport bislungo, non bisogna essere dei fighetti neanche nelle relazioni sociali, altrimenti è meglio cambiar aria; infatti ti misurano subito affibbiandoti il soprannome che ti resterà attaccato per sempre, prendendo il posto del tuo vero nome.

Come quella volta che un amico mi venne a trovare durante un allenamento, Cerco Luciano Saia, disse ad un mio compagno di squadra, Gnari, ghe ché giü che ‘l serca un certo Saia..., L’è ‘l Che, semiòt, sét gnanche el nòm del Che che süga con de té?
Certo erano i tempi dei pionieri del rugby , il Calvisano era nato da poco e i giocatori si facevano più fama a tavola che sul campo, ma tant’è, con i soprannomi, non si scherza, diventano una seconda identità, indelebile nel tempo.

Così se oggi parli di Morzenti forse non se lo ricordano nemmeno come terza linea del Calvisano di qualche anno fa, ma se gli parli di Manina se lo ricordano di sicuro, o di Alfredo Gavazzi detto Osso, uno dei padri fondatori e attuale patron del Rugby Calvisano, per non dire di Zola, il cui presunto vero nome era Fulgido, in realtà si chiamava Fortunato, ma tutti in seguito lo chiamarono zio Zeb come il personaggio di un telefilm western che risolveva sempre le situazioni impossibili.

E' l’identità rugbystica, che ti decrive col tuo aspetto fisico, o ti coglie in un momento di verità sul campo, quando cade la maschera e si rivela quello che sei veramente, leale o infido, coraggioso o cagone, primadonna o al servizio della squadra, intelligente nel cogliere lo sviluppo dell’azione o dotato di mediocre visione e capacità sportiva. Iè trent’ agn che te züghèt, ma te capésèt gnamó un càzo de rugby, tanto per sintetizzare il concetto.

Già, perché il rugby non è uno sport facile, è regola per eccellenza, anche se chi lo vede alla tivù è portato a pensare che sia uno sport violento, aggressivo, uno sport materiale, da manzöi, per dirla alla bresciana.
Certo non è uno sport per damerini.
Arbitro, che i pica, E té tùrnaghéle, beleló
, voce santa dell’arbitro, che se ti vede commettere infrazioni e gravi scorrettezze ti strafulmina, ma lascia che nell'ordinaria amministrazione i giocatori se la facciano fuori tra loro.

Battibecchi, regolamenti di conti sono all’ordine del giorno, un cazzotto in più neanche lo senti dentro quelle mischie dove tu stai sotto e altri sette o otto bestioni ti stanno sdraiati sopra, scalciando, strattonando... Tira via le mà dàla mé bàla, con incerto riferimento all’oggetto in questione, perché nella mischia si cerca sì di guadagnare la palla preziosa, ma senza tanti riguardi per l’incolumità dei gioielli altrui; anzi, quale migliore occasione per saldare quel conticino in sospeso, senza far tante scene.

Arbitro, chèsto che èl gà le mà de ché …! E te pèstaghéle.
Detto fatto e sìto.
Così la regola è salva; quella che detta lo sviluppo tecnico del gioco con le sue innumerevoli sfaccettature nel passaggio della palla all’indietro, di schieramento nei raggruppamenti, di distanza tra le squadre, di posizione dei giocatori e di contatto diretto tra di essi; e quella non scritta che impone di andare sempre al sodo delle questioni. E sul campo il sodo è soltanto il gioco.

Così reciproche minacce sibilate muso a muso
tra avversari incazzati non fanno storia per la partita, non la fa nemmeno una rissa in campo.
Chi ga cominciàt, i soliti rompicoióni, eh
? E l’arbitro sentenzia un calcio contro, e ancora una volta sìto e mosca, salvo beccarsi un’altra punizione; e c’è sempre qualche svelöp che ha qualcosa da ridire sulla posizione degli avversari, Arbitro, dieci metri, allora fischio fatale e calcio piazzato.
Perché il rugby è così, il dissenso sulle decisioni arbitrali non è ammesso e se protesti penalizzi tutta la squadra, perciò per essere un vero giocatore devi avere anche ben chiaro in testa il concetto di regola e accettarne la logica nelle varie circostanze del gioco, che a pensarci bene sembra proprio un'allegoria della vita, ammesso che non sia la vita a essere un'allegoria del rugby.

Sia come sia, è certo che se insegnato con lo spirito giusto, facendo del rispetto delle regole una pratica e non una predica, le vedi subito le belle realtà del rugby giovanile, con i dirigenti e gli allenatori attenti ai bisogni dei ragazzi, alla loro crescita umana oltre che sportiva, come è nella società del Fiumicello, che segue quasi esclusivamente il settore dagli under otto agli under diciotto.

Lì il Fabio Biazzi ha iniziato vent’anni fa a reclutare amici scelti e genitori dei ragazzi inserendoli nella struttura organizzativa come dirigenti, allenatori, accompagnatori, tutti volontari non retribuiti. E' così che il Fiumicello è diventato un riferimento per il rugby giovanile della provincia, con un bell’ambiente societario, molto unito e collaborativo, infatti sono tutti qui a Bologna, con due pulman pieni di ragazzini e genitori al seguito. Che poi molti sono ex-giocatori che ora fanno gli allenatori dei loro figli o dei figli dei loro amici, come Bruno Ancillotti, ex del Brescia, ora coordinatore tecnico.

Già, perché il rugby è ereditario e si tramanda di madre in figlio, infatti il pupo si forma presto, rugbysticamente parlando, perché alla partita ci va fin da subito con la madre, appena concepito viene immediatamente introdotto nell’ambiente, che se non si appassiona è proprio un figlio degenere, una vera onta per il casato. Immagina se qualche Appiani si mettesse a giocare a tennis, faccio per dire, sarebbe subito disconosciuto dalla famiglia, certo, perché anche nel rugby bresciano ci sono le stirpi di rugbysti, ormai non è solo il Veneto a coltivare questo sport, a creare la tradizione famigliare della pratica rugbystica, anche noi bresà abbiamo ormai 10 società consolidate; pensa soltanto a quante ne ha costituite Silvio Basso.

Che non è cosa da poco, se pensiamo che prima dello scudetto del Brescia nel 1975 c’erano solo altre tre squadre, il Lumezzane di Bruno Menta, il Gussago di Angiolino Rocchelli e il Calvisano di Vaccari e Gavazzi. Squadre di uno sport pionieristico giocato su campi infami di serie D, con mezzi finanziari da far piangere le pietre, ma sostenuto da un entusiasmo e da una volontà incredibili.

Del resto chi te lo faceva fare di partire da Brescia in cinque su una Fiat 500, con le sacche e noi tutti stipati dentro, guidare nella nebbia della bassa, allenarsi nella fànga del cap, già perché non era mica un campo sportivo quello, ma un campo di furmintù affittato dopo il raccolto, in estate torturati invece dai famosi moschini di Calvisano, fare la doccia quasi sempre fredda, Tanto i zuègn i ga el sanc che bói, pagarsi le trasferte e qualche volta spingere anche il pulmino del Moracì che non partiva più.

Chi te lo faceva fare
se non la passione per questo sport zaccherone, che riduce la maglie ad una crosta puzzolente e intasa le lavatrici delle madri e delle mogli furibonde; salvo arrivare negli spogliatoi con la divisa sporca di quattro o cinque allenamenti prima, che sta in piedi da sola; come quella famosa di Livio Casari, che atterrava gli avversari per inalazione del biogas esalato dalla sua maglia, Gó mìa la murùsa che me làa la roba, mé, lo faceva apposta e rideva come un matto.
Chi ce lo faceva fare allora di prenderci le tacchettate nella schiena e spallarci quando restavamo sotto la mischia?

La verità è che ci divertivamo, ci divertivamo davvero molto, sia sul campo che fuori. Anche perché avevamo un vero maestro dell’arte del terzo tempo, Giulio Ventura, il primo allenatore del Calvisano, il vero animatore del rugby vissuto come esperienza collettiva, secondo lo spirito anglosassone del club, interpretato però da una socialità mediterranea e da una umanità che dava spazio al confronto aperto e a tutte le individualità. Divertirsi era la conditio sine qua non, Senò té züghèt a fa, apèna per ciapàle?

Uno spirito che ebbe ed ha schiere di tenaci assertori
, che non mollano neanche con l’avanzare dell’artrosi, come Alberto Scola l’inoxidabile, 40 anni di rugby alle spalle e ancora insiste a fare l’old. Sì, perché quando “smettono” di giocare diventano old e continuano a fare esattamente ciò che facevano prima, si allenano, si fanno male, vanno a cena tutti insieme, se ne dicono di tutti i colori, organizzano tornei, trovano ogni pretesto per stare in compagnia.

Adesso poi hanno costituito addirittura una Onlus
, perseguendo l’ambìto progetto di Ettore Zucca di unificare i due gruppi di ex, Brescia e Castenedolo, nella società Old Rugby Brescia–Memorial Aldo Invernici, intitolata all’uomo che più di tutti, negli anni di presidenza della FIR, lavorò per lo sviluppo e la modernizzazione di questo sport. Già, le pensano proprio tutte per stare insieme, e meno male che è così perché chi se non gli old possono oggi fare da collante con le nuove generazioni, con squadre che andranno sempre più verso il professionismo, rischiando di perdere lo smalto di questo spirito bislungo che fa del rugby lo sport più esaltante e divertente del mondo; parola di old artrosico ma non nostalgico.
Io infatti sono sempre stato un assertore convinto della tecnica e della qualità del gioco, perchè giocare bene è più bello, ci si diverte di più, ma non a scapito però di questo clima comunitario, di appartenenza, che ti marchia a vita come tacchettature sulla schiena.

Come quella volta della 24 h ore di rugby
, altra bella trovata di questa manica di matti, uno spasso da non credere, ritrovarsi dopo anni e sentirsi ancora come a casa propria.
Ricordo che in mischia avevo beccato molte palle, che quelli dall’altra parte si incazzavano e dicevano che facevo il pendolo, Ma che pendolo, te sét té che te ghét la pansa e te vèdèt gnanche la bàla, e giù a sbetegare come una volta, uguale uguale, e dietro Sandro Pasinelli che spingeva come un dannato e ogni volta che prendevo una palla mi diceva, Brào vècio Che, e io, Pùcia Dutùr, pùcia e fa sìto, e quando non spingeva si sentiva la mischia arretrare.

Che mondo è mai questo, ovale, proprio così, non li vedi per anni, poi suona il tam tam della squadra e arrivano tutti, come oggi a Bologna, chi ancora con un bel fisico, chi con la pancetta, se la misurano per vedere chi ne ha di più, Ti batto di almeno sei centimetri. Tutti bei grigi e matti tali e quali, arbitro compreso, il buon Silvio Stefana, a cui spettava l’arduo compito di rimetterci in riga, Té sta fermo con chèi pè, e per dimostrare di essere imparziale sbacchettava i suoi amici a più non posso.

Che bella quell’idea di fare una 24 h di rugby, con tutte le squadre di tutte le età della provincia; arrivavano i padri con i figli ormai grandi che giocavano in prima squadra, che chi li ferma più ormai, le mogli, le morose con amici al seguito, qualche nonno irriducibile, le nonne no, quelle stanno a casa perché non sopportano la vista dei nipoti sepolti sotto un’ammucchiata di corpi che chissà come fanno a respirare, dei figli invece non gliene frega niente, le prendano pure, Ga n’ó dàde tròp póche e ardì cósa ghè saltàt föra.

Persino la crocebianca era dei nostri
, dentro ci stava Pedretti Pedro, l’infermiere, che si godeva la partita a bordo campo, Pöde mìa zügà, só en servìsio, e sotto il camice aveva una maglia stinta a rigoni, cimelio di venti chili fa, E po' se sa mai che qualche vècio el se fa mal.
Già, come Lillo Rossi, c’era anche lui, old all’inglese, ma aveva però capito subito l’antifona all’italiana, Ma chèsti fan sul sèrio, pìchéno, e ci pianta lì a prendere tacchettate, Tanto voi sì zòveni, già, ma chissà cosa beveva lui durante la partita, perché i veri zòveni in campo bevevano acqua o the, noi vèci invece uscivamo dal campo a tracannare birra a garganella, perché si sa, con l’acqua i ferrivecchi i fa ‘l rözen. Così al caldo africano che spezzava le gambe si univa la birra ad appannare la vista, c’era da litigare per chi doveva giocare alle tre di notte invece che alle tre del pomeriggio; ma per fortuna a tirare su il morale c’era la prospettiva della solita paciàda in compagnia, con una bella bàsia di pastasciutta davanti e anche qualcosa d’altro in parte.

Proprio come oggi qui Bologna
, a dieci anni di distanza, Se ènsóm o se pèrdóm dopo se fa ‘na bèlå taolàda; certo, perché nel frattempo a Calvisano stanno fervendo i festeggiamenti, perché arrivare in finale scudetto è comunque un gran bel risultato.
Intanto, allo stadio colorato in giallo e nero, la curva nord degli ultra..stagionati di Calvisano, capeggiati da James e dal Dutùr, per soffocare la commozione dell’inno nazionale intona una canzone più consona allo stile rugbystico nostrano, Piero póm, e io non so più se ridere o piangere, perché sento anche la sottile malinconia dell’assenza, degli amici che non sono più con noi, Corrado Candio, Chemel, Claudio Colombi, Mirko Rasini, il mio giovane pilone Giuseppe Ongari, Ettore Zucca che ha lasciato il suo ultimo respiro sul campo.
Ma la tensione e i tristi pensieri spariscono con il calcio di inizio e mi metto a gridare ai quindici gialloneri della mia squadra, Sostegno al compagno, si gioca fino alla fine, orgoglio gnari, orgoglio in campo. *


*Alla fine della partita, uscendo dal campo è abitudine, sempre, che i giocatori si applaudano reciprocamente in segno di saluto e rispetto, anche se perdono; la finale per lo scudetto infatti fu persa dal Calvisano, ma nessuno pianse, nessuno si disperò: tornando a casa c’era una tavolata ad attenderli. La festa delle feste era soltanto rimandata.

Marisa Viviani e Luciano Saia

Dalla Mischia, in Passioni e campioni di Brescia sportiva, a cura di Nicola Rocchi, Supplemento di AB Atlante Bresciano, n° 68, Autunno 2001, Brescia, Grafo, pag. 100-105




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