02 Maggio 2013, 07.25
Casto Valsabbia
Briciole di cultura

Il «Sant'Antonio Abate» di Auro

di Alfredo Bonomi

Il santuario della Madonna della Neve sopra Auro nel Savallese non č solamente una delle tappe piů note della devozione mariana ma č uno "scrigno d'arte" particolarmente ricco e bello

 
Come sempre per gustare meglio ciò che si osserva viene in aiuto la storia.
La tradizione e i documenti tramandano che il 1° agosto del 1527 la Vergine apparve a Bartolomeo Silvestri, un povero ed umile pastore intento a far pascolare il suo gregge in un prato sopra il paese di Auro.
Storpio ad un braccio e ad una gamba, venne miracolosamente guarito.
 
Il fatto non passò inosservato e la devozione alla Madonna proruppe nella volontà di costruire una chiesa che ricordasse l’apparizione.
Il 1° marzo del 1531 Antonio Gazzaroli e Gasparo Silvestri, entrambi di Auro, si recarono dal Vescovo di Brescia chiedendo, per loro, ed anche in nome dell’”Università di Savallo”, cioè la realtà amministrativa sovracomunale che comprendeva i paesi di Mura, Posico, Comero, Malpaga, Casto e Alone, licenza di costruire il santuario sul terreno donato al miracolato, richiesta che venne esaudita.
 
Il santuario, iniziato nel 1531, era già terminato nel 1555 e dedicato alla Madonna sotto l’antico titolo di “Santa Maria della Neve” richiamando il santuario mariano più rinominato a quel tempo, precisamente la basilica romana di Santa Maria Maggiore.
Successivamente nella seconda metà del 1600 la chiesa venne interessata da corposi interventi che ne modificarono in parte l’assetto originario.
Lo stile architettonico della chiesa, ben proporzionata, è di un barocco ancora legato agli schemi rinascimentali. La volta della navata venne affrescata alla metà del 1700.
 
Mentre si costruiva la chiesa, proprio all’inizio della tradizione devozionale, nacque e prese corpo la “Confraternita della Beata Vergine”, composta da uomini e donne con lo scopo principale di riaccendere e mantenere nei fedeli la devozione alla Madonna.
Nell’archivio parrocchiale di Comero è conservata la “Mariegola”, cioè lo “statuto” della Confraternita, manoscritto a Venezia il 24 febbraio del 1573 a spese di un gruppo di persone originarie della zona ma dimoranti nella città lagunare.
 
La popolazione del Savallese, come ricorda l’arciprete di Mura, mons. Pietro Vittici in una nota del 1930, si recava due volte all’anno al santuario ritenuto un punto di riferimento spirituale di tutta la zona.
I pellegrinaggi venivano chiamati “Ricorsi” ed, in modo diverso, continuano anche oggi .
Il santuario contiene alcune preziose opere d’arte di assoluta qualità.
 
Sull’altare maggiore è conservato il segno primo della devozione.
E’ la “sana immagine” venerata dalla popolazione ed è posta in un apposito tabernacolo chiamato “Arca”.
Ogni anno veniva portata in processione durante i “Ricorsi” al santuario. Il quadro originale era opera del Moretto, venne venduto nel 1880 (una scelta infelice alla quale ne sarebbero seguite altre senza l’opposizione dell’avv. Luigi Freddi dei “Bì”) e sostituito con una pregevole copia che raffigura la Vergine col Bambino e S. Giovannino.
 
Tra quanto è ancora conservato, non possono passare inosservate la stupenda pala raffigurante “Sant’Antonio Abate” dipinto dal Moretto, l’imponente soasa lignea sull’altare maggiore, una delle più complesse e riuscite tra quelle uscite nell’arco di tempo che va dal 1730 al 1750 dalla Bottega dei Pialorsi “Boscaì” di Levrange, probabilmente con il magistrale apporto di Bortolo Zambelli e gli elegantissimi intagli della cantoria e della cassa dell’organo, ritenuti pure dei “Boscaì” anche se permangono dubbi su questa attribuzione.
 
Ma è il “Sant’ Antonio abate” del Moretto che merita ben una visita.
La tela, eseguita dal grande pittore bresciano prima del 1535, con molta probabilità fu dovuta all’intervento di mons. Donato Savallo colto e potente prelato di famiglia originaria del savallese.
Il padre Cipriano, notaio diventato ricco con le sue cariche curiali, ottenne molteplici benefici ecclesiastici per suo figlio mons. Donato, arciprete del Duomo nel 1524, oltre a molte altre prebende, fu investito di vari beni a Marmentino ed a Castenedolo e non a caso le parrocchie di questi paesi ospitano opere significative del Moretto.
 
Il santo, raffigurato seduto in trono con tocchi coloristici straordinari, in ricchi paramenti, si impone maestoso con autorevolezza indiscussa in un abbraccio che sembra voler accogliere ogni preoccupazione umana, ogni tormento, con una presenza taumaturgica che, attraverso uno sguardo intenso, severo e sicuro, sembra indicare la “via giusta”, una linea di condotta a tutte le popolazioni delle montagne valsabbine.
E’ un quadro che lascia stupefatti, che comunica immediatamente, che “avvolge” in un’atmosfera spirituale , in toni efficacemente realistici, di sicura comprensione per gli uomini.
 
E’ la risposta adeguata ad una committenza fortemente legata a modelli agrari, per i quali il culto di S. Antonio rappresenta, oltre che un riferimento puramente religioso, anche un’immagine taumaturga: lo si vedeva infatti potente contro le forze malefiche che aggrediscono uomini ed animali, oltre che guaritore dell’herpes zoster, volgarmente detto appunto “fuoco di Sant’Antonio”.
 
Purtroppo il santuario, come gran parte della zona circostante, si trova a lottare contro l’instabilità del terreno che periodicamente ne mette in pericolo le strutture.
La saggezza degli uomini nel non gravare troppo con costruzioni pesanti questi pendii, o per dirla in modo più facile nel non “cementificare” tutto, deve essere una costante per cercare di mantenere un equilibrio precario.
 
Alfredo Bonomi
 
 


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